Recensione “Il Gattopardo” di Tomasi Di Lampedusa
“L’ira e la beffa sono signorili; l’elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un ‘signore’ lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco. Un ceto difficile da sopprimere perché in fondo si rinnova continuamente e perché quando occorre sa morire bene, cioè sa gettare un seme al momento della fine. Guardate la Francia: si son fatti massacrare con eleganza e adesso son lì come prima, dico come prima perché non sono i latifondi e i diritti feudali a fare il nobile, ma le differenze.
Adesso mi dicono che a Parigi vi sono dei conti polacchi che le insurrezioni e il despotismo hanno costretto all’esilio e alla miseria; fanno i fiaccherai ma guardano i loro clienti borghesi con tale cipiglio che i poveretti salgono in vettura, senza saper perché, con l’aria umile di cani in chiesa”. “In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi […] vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘là’; noi siamo dei bianchi […] quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso […]. Il sonno […] il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali […]. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera e cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana”.
Si specchiano in queste riflessioni del gesuita padre Pirrone e del principe Fabrizio Salina, personaggi (di contorno il primo, principale il secondo) de Il Gattopardo, capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il sogno impetuoso e fragile del Risorgimento e dell’unità d’Italia, il suo inevitabile disfacimento, che paga in una realizzazione imperfetta, compromissoria e partigiana la rinuncia a ogni idealità, e il parallelo crollo della nobiltà di sangue e terriera, espressione magnifica ma illusoria di un tempo che semplicemente non è più.
Lo scrittore siciliano circoscrive un momento centrale di storia patria nel racconto dei destini di un pugno di uomini, si concentra su un orizzonte narrativo apparentemente angusto (quello di una saga familiare), ma in ciascuno dei componenti della dinastia Salina, dal principe ai figli, fino all’amatissimo nipote Tancredi, uomo nuovo e antico insieme (signore per diritto di nascita, borghese per calcolo e infine deputato della nascente nazione, rappresentante di quella “estrema sinistra della estrema destra”, area politica più di tutte le altre congeniale al suo temperamento insieme noncurante e audace e “trampolino magnifico che doveva poi permettergli acrobazie ammirevoli e ammirate”), egli fa riverberare le sorti di un’Italia palpitante nella volontà dei Savoia, echeggiante nelle scorribande liberatrici di Garibaldi e dei suoi giovani soldati ma ancora lontana dall’esistere, incapace di realizzar se stessa e quel che più conta ripudiata, in culla, dalla Sicilia sonnolenta e sprezzante che Lampedusa disegna nello sfogo acuto e amaro del principe Salina, quella Sicilia che al di là dei propri confini così gelosamente custoditi dai suoi figli (tanto patrizi quanto plebei) trova eco al proprio snobistico disprezzo e al cinico attivismo di chi si adopera “perché tutto cambi affinché nulla cambi davvero”, nei mille e mille particolarismi che sono essenza e destino del paese che è stato e di quello che verrà.
Nell’incanto di una lingua raffinatissima, di una scrittura lieve e straordinariamente incisiva, che non disdegna l’ironia, consapevolmente si astiene dagli eccessi irosi di un De Roberto (autore del magnifico I Vicerè, di cui ho già scritto in questo blog) ma che sa comunque colpire con precisione ed estrema efficacia i propri bersagli, Il Gattopardo è un intenso, indimenticabile canto di morte (la cui presenza, richiamata e vissuta, apre e chiude il romanzo), un’elegia d’ombra di rara bellezza e profondità.
Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.
“Nunc et in hora mortis nostrae. Amen”. La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.
Mi è piaciuto molto (libro e consiglio del libro)!
Il libro è magnifico, e tu sempre molto gentile
ciao Paolo, quasi quasi mi fai amare un libro che ho odiato da studente certo non lo rileggerò però sto imparando ad apprezzarlo (Y)
Prova a rileggerlo Nino, resterai sorpreso