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Una stazione della via della croce

Recensione di “Bagatelle per un massacro” di Louis-Ferdinand Céline

 
Louis-Ferdinand Céline, Bagatelle per un massacro, Guanda

È difficile accostarsi all’opera controversa di un maestro. Arduo scoprire nella genialità espressiva, nell’estetica disperata della forma (che perfettamente coincide con la sostanza), nella verità rivelata con la sincerità piena e irresponsabile del vinto, di chi, messa definitivamente da parte la speranza non ha più ragione di temere nulla e anzi si espone quasi con voluttà al perbenismo ferino del mondo, la corruzione di un odio che, spinto oltre se stesso, deraglia, rompe ogni argine e, come un veleno per il quale non esiste antidoto, sembra intossicare tutto ciò che sfiora.


Impressiona aggirarsi nel rigoglio letterario di una prosa tumultuosa e infaticabile, che ha l’impazienza frenetica dello sfogo e l’ardore allucinato del risentimento, della rabbia, e nello stesso tempo venir costretti alla contemplazione dolorosa di un deserto d’emozioni spazzato unicamente da cieche folate di crudeltà.

In una parola, lascia senza fiato leggere Bagatelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline, libro maledetto condannato dalla storia come ignobile, vergognoso pamphlet antisemita, opera-scandalo che al suo apparire in Francia (venne pubblicata nel 1937) trovò favorevolissima accoglienza tra il pubblico (contribuendo così suo malgrado a smascherare il diffuso sentire antiebraico del Paese) e che è insieme così simile e così opposta ai capolavori Morte a credito e Viaggio al termine della notte che avevano visto la luce soltanto pochi anni prima.

Simile nell’ineguagliabile splendore narrativo e nella denuncia preziosa della sostanziale ipocrisia del vivere (o per dir meglio dell’esser vivi), e diverso fino ad apparire mostruoso nella scelta del bersaglio polemico (gli ebrei, anzi, l’ebreo, archetipo di tutti i mali, cuore oscuro dei peggiori complotti, segreto reggitore del mondo e causa prima e ultima delle sue disgrazie) e nell’accanimento posto a distruggerlo. E le parole sembrano mancare, di fronte a questo libro, perché Céline è scrittore troppo grande e uomo troppo onesto nelle sue gigantesche imperfezioni per subire la mortificazione di giustificazioni, o peggio di banalità spacciate per ragioni, per spiegazioni. Come ben spiega Ugo Leonzio nella prefazione all’edizione italiana di Bagatelle per un massacro pubblicata da Guanda, “Ogni metodo usato per situare o circoscrivere questo disumano atto d’accusa e di autoaccusa rischia di apparire funesto o ridicolo: ridicole le motivazioni patologiche («un momento di follia») e quelle estetiche («l’antisemitismo è solo una metafora dell’odio per il mondo»); funeste quelle psicologistiche («Céline vuole fare scandalo perché in una fase di impotenza creativa») e quelle enigmatiche («Bagatelles è un pamphlet antisemita ma noi non sappiamo cosa siano gli ebrei per Céline»)”.

Come affrontare, dunque, le Bagatelle céliniane? Non certo, a mio giudizio, accusando l’autore di aver tradito se stesso scrivendo questo livoroso libello; un po’ perché non è certo il livore a mancare nella produzione letteraria di Céline considerata nel suo insieme (in questo blog trovate diverse recensioni dei suoi romanzi), ma soprattutto perché il grande francese è sempre stato lucido nel suo delirio umano e letterario, e ha deliziato, provocato, insultato, esaltato e deluso lettori, amici e nemici con studiata indignazione, vivendo interamente in ogni parola scritta, respirando in ogni frase, urlando in ogni pagina.

Non c’è ombra di pentimento nei suoi romanzi, proprio come non c’è ammissione di colpa; Céline, esperto d’uomini come nessun altro, non spreca tempo a interrogare se stesso, non si balocca con l’autocoscienza e la confessione. Quel che ci racconta è sì la sua vita, ma riflessa in quella degli altri; egli è testimone del folle e tragico spettacolo del mondo e quando l’insensato girotondo della vita lo prende con sé per scaraventarlo tra gli altri, semplicemente gli usa violenza, lo costringe a sporcarsi le mani, a misurarsi di nuovo con il più grande dei dolori, quello del tradimento.

E il tradimento di cui Céline è vittima, quello che lui, medico dei poveri prima che scrittore, dichiara senza sosta di aver patito e di patire, è quello dell’amore negato. L’uomo, ci dice Céline, non merita il sacrificio dell’amore, e gli accenti di profonda disperazione che colorano questa sua ammissione spalancano le porte alla distorta rivalsa dell’odio, che nella sua furia non spreca tempo a far distinzioni. Così, l’ansia di giustizia, priva di freni, diviene condanna di tutte le ingiustizie, delle reali come delle immaginate, e l’opposizione al potere e alle sue prevaricazioni rifiuto di ogni meccanismo del potere (compresi quelli indispensabili), ripulsa di ogni incarnazione, anche in questo caso delle reali come delle immaginate (il borghese, l’ebreo, il massone… chiunque si possa agevolmente vestire con i panni del nemico per eccellenza, buoni per ogni stagione).

Bagatelle allora? Bagatelle è tutto tranne un infortunio, un passo falso; è invece una tappa della discesa agli inferi di Céline, una stazione della sua via della croce. Con ogni probabilità, una delle più dolorose. “È curioso”, scrive ancora Leonzio, “come […] io veda accostarsi a Céline la figura prepotente di Karl Kraus, dell’ebreo Kraus. Per questi scrittori-attori, la corruzione non è solo un’irresistibile seduzione ma la testimonianza di un’irriducibile fedeltà alla vita […]. Io non credo che l’odio sia la tragedia dell’istinto ma la forma più perversa del dolore umano, dolore che si manifesta in un solo modo nel mondo e negli spazi infiniti: come privazione d’amore. L’odio è la forma più profonda e incomunicabile dell’amore”.

Tralascio, perché mai come in questo caso è cosa superflua, la trama dell’opera e vi lascio all’incipit di Bagatelle per un massacro. La traduzione è di Giancarlo Pontiggia. Buona lettura.

Il mondo è pieno di gente che si dice raffinata e che poi non è, ve l’assicuro, raffinata neanche tanto così. Io, servitor vostro, credo davvero di esserlo, un raffinato! Sputato! Autenticamente raffinato. Fino a poco tempo fa, facevo fatica ad ammetterlo… Resistevo… E poi un giorno mi sono arreso… Al diavolo!… Però sono un po’ infastidito dalla mia raffinatezza… Cosa si finirà per dire? Pretendere?… Insinuare?… Un vero raffinato, raffinato per diritto, per costume, garantito, di solito deve scrivere almeno come il sig. Gide, il sig. Vanderem, il sig. Benda, il sig. Duhamel, la signora Colette, la signora Femina, la signora Valéry, i “Théatres Français”… sdilinquirsi nella sfumatura… Mallarmé, Bergson, Alain… spompinarsi l’aggettivo… goncourtizzare… cristo! Inculare le mosche, frenetizzare l’Insignificante, cinguettare in pompa magna, pavoneggiarsi, chicchirichire ai microfoni… Rivelare i miei “dischi preferiti”… i miei progetti di conferenze….

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