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La vertigine insostenibile della vita

Recensione di “Gli indifferenti” di Alberto Moravia

Alberto Moravia. Gli indifferenti, Bompiani
Alberto Moravia. Gli indifferenti, Bompiani

Sullo sfondo di una città anonima e universale, che si indovina per sottrazione nei viali lucidi di pioggia, nel silenzio innaturale dei parchi e nella congestione odiosa del traffico; sul palcoscenico nobile e tetro di appartamenti un tempo magnifici, trascurati dagli anni e ignobilmente sfruttati e traditi da coloro che li abitano; nell’ossequio impeccabile e impersonale (e impeccabile proprio perché impersonale) alle regole della convivenza e della convenienza sociale, all’etichetta, si trascina e si consuma un esistere d’apparenza, una vita d’ombra, la tortura soffocante dell’eterno ritorno del nulla, l’incolore parabola del nascere e del morire.


Senza che mai, dall’infanzia alla più avanzata maturità, si riesca ad afferrare un senso, un perché, si possa rendere ragione del fatto di essere al mondo, si abbia, anche solo per un istante, coscienza di essere persone, e di essere vive. Ritrae luomo in macerie Alberto Moravia nel suo folgorante romanzo d’esordio, Gli indifferenti, storia di una deriva esistenziale e morale che gran parte della critica ha letto come testimonianza e presa d’atto del declino inarrestabile della classe borghese ma che a mio avviso è ben più di questo. Il punto di vista di Moravia, infatti, è esistenziale più che sociale, i suoi personaggi sono modelli universali, scolpiti in una dimensione atemporale, eterni nella sconfitta, nell’impotenza, nella rinuncia. Esseri umani negati, i protagonisti de Gli indifferenti – i fratelli Carla e Michele, che annegano l’esuberanza ingenua della loro giovane età in un tedio che quasi non riescono a comprendere ma di cui non sanno liberarsi; Mariagrazia, la loro madre, nobile decaduta sull’orlo della bancarotta rosa dalla gelosia nei confronti dell’amante; l’amante stesso, il gaudente Leo Merumeci, imprigionato nel suo patetico ruolo di dongiovanni e così disperatamente bisognoso di fuggire dai suoi anni, dalla sua sterile agiatezza economica, da decidere di sedurre Carla; e infine Lisa, l’amica di Mariagrazia, donna grigia, insignificante, affamata d’amore e di considerazione – non sono che marionette; vivi dal punto di vista squisitamente biologico, sono in realtà morti alla volontà, alle passioni, al dolore e alla speranza. E Moravia li racconta, ne narra le sordide gesta (racchiuse in un pugno di ore, tra pranzi, cene, visite di cortesia e balli, in quell’imitazione di dolce vita che l’alta borghesia confeziona senza sosta dando vita a rituali tanto raffinati quanto stantii) con la stessa impietosa efficacia di un medico alle prese con un cadavere sistemato su un tavolo autoptico.

La sua prosa diretta, insensibile a ogni superflua eleganza e proprio per questo evocativa e potente nella sua semplicità, dà vita a un grandioso romanzo in chiaroscuro; nelle sue pagine, la voce agonizzante della verità, che infiamma i pensieri dei diversi personaggi (in particolar modo di Michele) e come un urlo strozzato in gola svanisce nell’irrealtà tragica dei propositi abortiti sul nascere (“avrei dovuto fare… avrei dovuto dire… come tutto cambierebbe se soltanto riuscissi… se fossi capace…), si alterna alla finzione mascherata da verità delle chiacchiere vane, delle piccate esplosioni di gelosia di Mariagrazia, che rimprovera all’amante Merumeci, da tempo stanco di lei, tradimenti inesistenti e non si avvede delle mire dell’uomo sulla propria figlia, e della collera di Michele, che nelle poche occasioni in cui arriva a rompere gli argini viene immediatamente ricondotta all’obbedienza, come fosse un docile cane di casa rimproverato e zittito per una reazione inaspettata, per un abbaiare inconsueto, fuori luogo.

Così, nell’immobilità implacabile di un vivere che non è che posa, di una recita a soggetto che si ripete, giorno dopo giorno, uguale a se stessa, ogni tragedia finisce per spegnersi in una farsa derelitta; si compie, con l’ineluttabilità di un destino da tragedia greca, la seduzione di Carla, e si sfalda in una grottesca caricatura di vendetta la reazione rabbiosa del fratello Michele, che vorrebbe punire Merumeci più per dimostrare a se stesso di essere capace di provare qualcosa che per una reale indignazione. E il giorno in cui tutto avrebbe potuto cambiare per sempre si chiude come una quinta che separa, a teatro, la fine di un atto dall’inizio del successivo.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.

Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto.

3 commenti su “La vertigine insostenibile della vita”

  1. bene come al solito, ma per me e solo per me, la borghesia di questo tipo non é appassionante, anzi mi annoia per la sua/mia prevedibilità, forse sono solo un lettore da Thriller, da intrigo internazionale, da spionaggio da chissà cosa.
    Counque grazie per avermi ricordato Moravia un grande che non mi appassiona,,,,,,,,,
    4 stellette e non 5 per il mi personale gusto ciao

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