Recensione di “La morte dell’erba” di John Christopher
“Questa è l’era delle epidemie. Afta epizootica, febbre catarrale, influenza aviaria, sars, vie di trasmissione, zone soggette a restrizioni, aree di sorveglianza, vaccinazioni di massa: siamo ormai avvezzi alla terminologia del contagio […]. I virus che più richiamano l’attenzione sono quelli che colpiscono uccelli, animali ed esseri umani. Ma i più pericolosi sono quelli delle piante coltivate.
Sulla base di una ricerca condotta in Africa nel 1999, è stato scoperto un fungo denominato Ug99, un devastante ceppo di ruggine che uccide il grano bloccandone il nutrimento e che distrugge interi raccolti. I primi ceppi dell’Ug99 sono stati scoperti in Uganda. A partire dal 2001 si è diffuso in Kenya, dal 2003 in Etiopia, e dal 2007 in Yemen e Pakistan, dal momento che il ciclone Gonu ne ha disperso le spore. Secondo un servizio della BBC, ‘le popolazioni più povere dei paesi sottosviluppati potrebbero morire di fame se l’epidemia si diffondesse’, poiché ‘una gran quantità di grano coltivato in Africa’ è sensibile all’Ug99”.
La bella e inquietante introduzione di Robert Macfarlane (scritta nel 2009) al romanzo La morte dell’erba di John Christopher (pseudonimo di Sam Youd), pubblicato per la prima volta nel 1956, annulla ogni possibile distanza tra letteratura e vita, tra invenzione e realtà, e precipita l’oggi, il mondo malato e prossimo al collasso di un ventunesimo secolo ipertecnologico e moribondo, tra le pagine lucidissime di un’opera di impressionante preveggenza, nel naufragio (che ci ostiniamo a ignorare) di un’umanità che ha perduto dignità, pietà, compassione.
Nel descrivere un mondo condannato al progressivo imbarbarimento dal moltiplicarsi di un micidiale virus in grado di distruggere ogni forma di vita vegetale (e dunque di ridurre alla fame, in un brevissimo arco di tempo, l’intera popolazione del pianeta), lo scrittore inglese riflette tanto sulle dimensioni di una tragedia (di qualsiasi tragedia), direttamente proporzionali alla distanza da cui le si osserva – al principio del romanzo, ambientato in Inghilterra e che ha per protagonista una benestante famiglia londinese, il virus sembra circoscritto all’oriente, alla Cina – quanto sulla fragilità, o meglio sulla sostanziale inconsistenza di tutte le nostre organizzazioni sociali. Le risorse di un linguaggio semplice, diretto, privo di inutili ricercatezze e lontano da qualsiasi astuta scorciatoia stilistica e verbale (di sicuro effetto ma di brevissimo respiro), sono al servizio di un racconto asciutto ma straordinariamente vibrante, ricco di dettagli, preciso, profondo e incisivo nella costruzione dei caratteri e spaventosamente verosimile nella descrizione del loro cambiamento, della loro mutazione, della loro aberrazione; un racconto splendido e indimenticabile, che nei momenti più cupi sceglie la sottrazione, si fa da parte dopo aver fornito al lettore gli strumenti necessari alla sua fantasia eccitata, alla sua paura destata, ai suoi pensieri terrorizzati affinché camminino con le proprie gambe, e così facendo dà vita a un quadro di rara completezza e di ancor più rara plausibilità.
Nulla cambia, nel ritmo della narrazione, quando il virus abbatte i confini geografici, le barriere naturali e quelle artificiali e arriva dappertutto, quando lo spettro della morte per fame di milioni, anzi di miliardi di persone diviene reale, eppure la violenza, la ferocia, l’abbandono di ogni freno da parte di uomini, donne, famiglie fino a qualche settimana prima perfettamente civili (proprio come lo siamo noi oggi), la loro trasformazione in belve pronte a tutto pur di salvare se stesse e i propri cari (il branco), sono evidenti, chiarissime, brucianti. Il prezzo della sopravvivenza – questa la tesi, inconfutabile, di Christopher – è la rinuncia, definitiva, alla vita così come la conosciamo, al modo di vita faticosamente costruito nel corso di travagliatissimi, sanguinosi millenni. E il prezzo della sopravvivenza paga, fino in fondo, l’attore principale di questo sublime dramma letterario, l’ingegner Custance, che cerca di sfuggire all’apocalisse rifugiandosi, in compagnia dei suoi affetti, nella valle di proprietà del fratello, una fortezza naturale coltivata a patate (immuni al virus) distante una manciata di chilometri dalla capitale inglese. L’odissea dei Custance, e di altri dispersi incontrati per via, in un mondo divenuto d’improvviso l’opposto di sé (o forse, ed è questa l’ipotesi più agghiacciante, rivelatosi, una volta per tutte, per quello che è davvero), è la discesa agli inferi di un intero genere umano, è la più atroce e insieme la più inutile delle battaglie, quella nella quale i vincitori sono i primi sconfitti. Ancora una volta, è Macfarlane a inquadrare perfettamente il romanzo e il suo significato, quando paragona l’opera non a un romanzo di fantascienza (nemmeno al più vertiginoso e terribile romanzo di fantascienza che si possa immaginare), bensì a Il Signore delle Mosche di William Golding. “Come Christopher”, egli scrive, “Golding aveva dubbi sul senso di superiorità britannico; la credenza ingenua, derivata dall’imperialismo del diciannovesimo secolo, che gli inglesi fossero implicitamente superiori ad altre culture e nazioni. Golding, che era un noto oppositore dell’autocompiacimento britannico sorto in seguito alla Seconda guerra mondiale, affermò in un’intervista che Il Signore delle Mosche ‘esprimeva semplicemente ciò che per me era rilevante scrivere dopo la guerra, che cioè tutti dovevano ringraziare Dio di non essere stati nazisti. Ho visto abbastanza cose da comprendere che chiunque di noi invece avrebbe potuto essere nazista’. Il suo romanzo, su un gruppo di scolari inglesi che si abbruttiscono su un’isola deserta, mostrava che dietro la superficie di qualsiasi gruppo sociale si celava il male”.
Prima di lasciarvi all’incipit del romanzo (traduzione di Mario Galli, Neri Pozza Editore) desidero ringraziare l’amico Guido Grisolia, cui devo la lettura di questo gioiello. Buona lettura a tutti voi.
Come a volte succede, la morte sanò un dissidio di famiglia. Agli inizi dell’estate 1933, rimasta vedova dopo tredici anni di matrimonio, Hilda Custance scrisse per la prima volta da quando si era sposata a suo padre. Tutti e due si erano addolciti. In lei aveva giocato la nostalgia per le coline del Westmorland, dopo i grigi anni londinesi; il padre aveva ceduto alla solitudine e al desiderio di rivedere, prima di morire, la sua unica figlia, e conoscere i nipoti che non aveva mai visto. I ragazzi, che studiavano in un’altra città, non erano intervenuti al funerale del padre, e all’inizio delle vacanze erano rientrati nella piccola casa di Richmond per una sola notte, prima di mettersi in viaggio con la madre verso il Nord.