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La nostra muta lingua madre

Recensione di “Money” di Martin Amis

Martin Amis, Money, Einaudi
Martin Amis, Money, Einaudi

Come la pubblicità, seducente perché ingannevole, come la pornografia, che parla la più universale delle lingue, come il cinema, quello “facile”, di cassetta, fatto apposta per accontentare tutti, come l’ignoranza, quella che ci si porta addosso con fierezza quasi fosse un vestito nuovo, che non si perde occasione per esibire, che ringhia costante nel tono di voce ed esplode, monotona, nella più classica delle provocazioni: “Io sono arrivato fin qui, ho guadagnato così tanto senza mai aver letto un libro. E tu, invece? Tu cosa hai fatto?”.

E come le amicizie interessate, le manipolazioni, i giochi doppi e tripli, i sorrisi di circostanza e i discorsi, che se possibile sono ancor più di circostanza dei sorrisi. E infine come le relazioni fondate solo ed esclusivamente sullo sfruttamento reciproco, su un tacito “scambio alla pari”: sesso per soldi. Così è la vita del giovane regista di successo John Self, protagonista dello splendido e cinico Money di Martin Amis; lo specchio (non importa quanto deformato e deformante) di qualsiasi cosa sia fonte di arricchimento, il riflesso (condizionato dall’abitudine, dall’assuefazione) di un unico pensiero, di un solo scopo, di un movente che all’infinito replica se stesso: accumulare denaro, spenderlo senza ritegno e continuare ad accumularlo. È il ventesimo secolo (per la precisione gli anni ottanta del secolo, ma al di là di qualche dettaglio descrittivo, il dissacrante lavoro di Amis, come accade per tutti i grandi romanzi, non paga alcun tributo al passare del tempo) il bersaglio polemico del romanzo; con i suoi orrori e i suoi splendori (che dell’orrore sono lo zenit), con le sue ossessioni, con le sue divinità dinanzi alle quali inginocchiarsi (il denaro su tutte), con i suoi riti, il più importante dei quali è l’ostentazione a ogni costo, l’espressione più volgare e inequivocabile della ricchezza, quella che mette a tacere qualunque contestazione, che riesce nel miracolo ubriaco di trasformare la rabbia in ammirazione, in sciocca devozione.

Questo secolo evanescente ed esplosivo si fa spietata caricatura di sé nei personaggi che lo incarnano e simboleggiano, negli antieroi spudorati, meschini e tronfi che il genio feroce di Amis tratteggia con diabolico compiacimento. L’edonista ed egoista John Self, innanzitutto, alcolizzato, avido consumatore di cibo spazzatura, pornodipendente, interessato esclusivamente ai soldi e a scoprire se la fidanzata Selina Street, tanto bella e disinibita quanto fredda e calcolatrice, lo tradisca, con chi e quanto frequentemente; poi Fielding Goodney, il socio di Self, l’anima finanziaria e imprenditoriale del progetto (il primo lungometraggio diretto da Self, il suo primo, vero film, il salto di qualità per un uomo che fino a quel momento non ha fatto altro che girare spot pubblicitari); splendente, giovanissimo, ricco oltre ogni possibile immaginazione e vizioso altrettanto, carismatico quanto basta per indossare senza imbarazzo abiti all’ultima moda e occhiali da sole e girare a piedi per New York, seguito come un’ombra dalla sua limousine (con immancabile autista), e furbo quanto basta per centellinare le cose da dire, e così apparire acuto, intelligente, perfino saggio quando la situazione lo richiede. E ancora il cast; Lorne Guyland, la star di decine e decine di film, innamorato di se stesso fino alla stupidità e incapace di arrendersi alla vecchiaia che da ogni parte lo assedia; Caduta Massi (!), una delle regine del set, che sublima l’assoluta mancanza di desiderio materno circondandosi di figli non suoi e di emeriti sconosciuti spacciati per familiari in omaggio alla sacralità parentale che è caratteristica distintiva di ogni italiano che si rispetti (e Caduta ha chiarissime origini italiane); l’astro nascente Butch Beausoleil, poco più che ragazza ma già tanto perfida e perversa da far invidia alla strega di Biancaneve (alla quale peraltro contende la bellezza); Spunk Davis, l’asceta, dedito soltanto al lavoro e ad atti di solidarietà e inconsapevole del vero significato del suo nome (che in Inghilterra, e John Self è inglese, londinese per l’esattezza, è termine volgare per sperma).

Amis, pungente e ironico fino al sadismo, dà vita a un luna park di situazioni improbabili, folli e grottesche, nelle quali ogni cosa che accade finisce per perdere importanza; gli eventi, infatti, sembrano essere diretta emanazione dei protagonisti del romanzo e proprio come loro sprofondano, appena nati, nelle sabbie mobili dell’insignificanza e dell’inutilità. Niente, ci dice Martin Amis (che si diverte a farsi carattere e a comparire, proprio in veste di scrittore, e in seguito di sceneggiatore del film, tra le pagine di Money), ha davvero senso in questo gioco comandato dal denaro (dalla brama di possederlo come dalla tentazione irresistibile di spenderlo, di dilapidarlo), tranne il denaro stesso.

Nel medesimo tempo burattinaio e burattino, il denaro anima ogni cosa; come un interruttore, accende le luci sul desolante spettacolo di un mondo vanesio e fatuo scorrendo a fiumi e d’improvviso le spegne arrestando il proprio flusso e rivelando quel che è sempre stato sotto gli occhi di tutti ma che nessuno voleva vedere davvero: che ciò che si spacciava per realtà non era che patetica menzogna, desolante finzione, proprio come accade nella pubblicità, al cinema e nella patinata sfrenatezza del porno, nostra lingua madre: “un cowboy adenoideo […] si faceva la superdotata Juanita del Pablo, dall’antipasto alla frutta. Poco prima dell’orgasmo di lui, la coppia si separava con frenesia incontenibile. A quel punto lei si inginocchiava davanti a lui: il cowboy doveva aver passato gli ultimi sei mesi di castità assoluta in un ranch, a dieta stretta di solo yogurt e latticello, con un contratto capestro che conteneva la clausola capestro ‘guai una sega’. Quando ebbe finito, Juanita pareva un bignè alla crema pestato, il che si avvicinava forse alla sua vera identità. La telecamera indugiava con fierezza sui suoi strabuzzamenti d’occhi e sui suoi colpi di tosse strozzata… Davvero difficile stabilire chi fosse il perdente numero uno in questa complicata transazione: lei, lui, loro, io”.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Einaudi, è di Susanna Basso. Buona lettura.

Mentre il mio taxi lasciava la Franklin Delano Roosevelt Drive da qualche parte intorno alla Centesima, una Tomahawk carica di neri uscì di corsia squaleggiando e si infilò di prua sulla nostra rotta. Sbandammo e centrammo qualcosa, uno spartitraffico o una buca: con il fragore di un colpo di fucile il tettuccio del taxi si abbassò di colpo e mi picchiò con violenza in pieno cranio. L’ultima cosa di cui avevo bisogno, credimi, con tutti i malanni che mi tormentano già, tra testa, faccia, schiena e cuore, e ancora mezzo ubriaco e stordito e fuso com’ero per via dell’aereo.

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