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Nell’amare, provare a vivere

Roberto Pazzi, La trasparenza del buio, Bompiani
Roberto Pazzi, La trasparenza del buio, Bompiani

La ricerca di sé, inquieta, tormentata, sfuggente (perché di sé implica l’accettazione, il coraggio di riconoscersi e la parallela ambizione di fuggire la clandestinità), si intreccia con la passione, e forse con l’amore, cercati, inseguiti con febbrile impazienza, pretesi con rabbia disperata da un uomo consumato dagli anni ma non ancora rassegnato, non completamente sconfitto.

La frenesia della carne, lo stupefatto entusiasmo dello spirito e del cuore – strumenti entrambi, necessari eppure tragicamente insufficienti, a disposizione degli uomini per differire la morte, per cercare di non averne paura: fragile talismano la prima, impotente scongiuro il secondo – palcoscenico del quotidiano, regalano, a volte solo per pochi istanti, a volte per l’intero arco di un’esistenza, indispensabili illusioni: sembrano capaci di imbrigliare il tempo, di cancellare i rimpianti, di dare un senso all’oggi e di riempire di desiderio e d’aspettative il domani; hanno la pietà e la misericordia dei sogni, ma dei sogni, e dell’irrealtà, purtroppo condividono anche la sostanza. Ecco dunque che la loro caducità, riflesso della nostra, si fa eco struggente di un vivere debole, precario, goffo, di una resistenza timida, passiva, all’irrompere del dolore, allo spietato gioco del caso, alle conseguenze delle nostre scelte, di decisioni che troppo spesso hanno il respiro affannato e il volto stanco, segnato e infelice della costrizione e quasi mai lo scintillio orgoglioso della scelta.

Tutto questo racconta, nel suo ultimo romanzo, intitolato La trasparenza del buio (Bompiani), lo scrittore, poeta e giornalista Roberto Pazzi. Attraverso una prosa semplice e immediata, ben calata in una maldestra modernità espressiva che privilegia l’immediatezza (non importa quanto superficiale, purché concreta, efficiente) alla bellezza e all’armonia della forma, alla musicalità della parola, che non si cura della preziosa coincidenza di forma e contenuto (caratteristiche che l’autore richiama a più riprese citando, con una sorta di nostalgico omaggio, grandi nomi della storia della letteratura e del pensiero: Emily Dickinson, José Saramago, Arthur Schopenhauer, Platone; e cui ricorre nelle brevi e intense descrizioni dei luoghi in cui è ambientato il romanzo: la raccolta Ferrara, Padova, così bella e insieme così buffa nel suo regale provincialismo, Verona, con le sue splendide piazze e la sua shakespeariana vanità), egli narra la tempesta amorosa di Giovanni Caonero, professore universitario omosessuale alle soglie della vecchiaia (ha quasi settant’anni), travolto, nel giro di pochi giorni, da tre sconvolgenti avventure, e così facendo si addentra nell’eterno mistero delle emozioni, si misura con l’insopprimibile bisogno, che è di ognuno di noi, di cercarci nell’altro, e attraverso l’altro sceglierci, riconoscerci, provare a rispettarci. E ad amarci.

In pari tempo Erinni ed Eumenidi, tumultuosi e tardivi, gli amori di Caonero divampano nella contraddizione: non è infatti che l’appetito sessuale a unire gli amanti, per il resto divisi da tutto; da differenze d’età, da incolmabili abissi culturali, da esperienze di vita opposte, da bisogni che non possono in alcun modo trovare conciliazione. Non ci sono che solitudine, e rimorso, e rimpianto, ad attendere il professore una volta soddisfatta la fame della carne; al termine di ogni esperienza egli torna a sé non come il viaggiatore che rientri a un sicuro porto dove trovare rifugio e riposo, ma come il prigioniero che, conclusa l’ora d’aria, si trascini fino alla sua cella. Schiavo del pregiudizio del mondo, e più ancora di quella sottile, insinuante vigliaccheria che in così tante occasioni ci spinge a mettere da parte ciò che pensiamo e vogliamo per timore di dispiacere agli altri e di attirarci la loro collera, il loro disprezzo, Giovanni Caonero spreca il presente così come ha sprecato tutta la sua vita, e giorno dopo giorno sempre più si spegne nell’abbraccio sfinito con il solo passato che ha rappresentato per lui il miraggio di una libertà sempre agognata e mai raggiunta: quello incarnato dalla nonna Giovanna, soprannominata “la Pazza” (come la madre di Carlo V, imperatore che governò su domini talmente vasti da non veder mai tramontare il sole) per il suo esibito e strafottente anticonformismo, e quello visceralmente vissuto da Milena, la sola donna capace di amare Caonero, e di esserne riamata.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.

I carabinieri li avevano scovati alle nove di sera, all’Antico Caffè Dante di Verona. A un tavolo d’angolo la nonna s’era fatta servire cioccolata calda, strudel e meringhe, poi i marron glacés di cui il nipotino andava pazzo, cercando nell’agenda squinternata un numero che voleva chiamare con il telefono a parete, com’erano molti apparecchi negli anni cinquanta. Intanto il suo Nane continuava a mirare col fucilino le vittime. Solo alle donne intimava: “Mani in alto!”. Il bambino l’aveva seguita la mattina, da Padova, venuta a prelevarlo da scuola per una visita medica. Sul taxi gli aveva poi detto la verità: “Macché dottore, ho ritrovato l’indirizzo del mio impresario, a Verona… e si va in giro per il mondo!”.

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