Recensione de “I fratelli Ashkenazi” di Israel Joshua Singer
“Il tema della decadenza borghese […] acquista una fisionomia del tutto particolare quando viene vissuto e trattato da una prospettiva ebraica, o meglio ebraico-orientale, e cioè ancorata all’integrità umana, culturale e religiosa dell’Ostjudentum […]. Quando si parla degli Ostjuden […] il termine ‘borghese’ pare acquistare una carica positiva, calda ed affettiva: nei lineamenti dell’ebreo orientale non assimilato si vuol scorgere il volto di un’individualità assoluta non scalfita dalla storia, la quale assume i connotati di un’ideale filosofia classico-borghese […].
Alla lacerazione dell’uomo contemporaneo, strappato da tutte le radici e da tutte le ‘Madri’, si contrappone il mitico ordine di una famiglia fondata sul legame personale tra padri e figli, sull’onorabilità, su consuetudini e costumi piccolo-borghesi”.
Nell’introduzione a I fratelli Ashkenazi, il romanzo più ambizioso e significativo di Israel Joshua Singer, pubblicato nel 1936, Claudio Magris delinea il senso complessivo di quest’opera monumentale, ne individua l’argomento principale, che per l’autore è tanto la pietra angolare del suo lavoro quanto un mero pretesto narrativo tra i tanti, dà ragione della scelta linguistica adottata (lo yiddish, testimonianza fiera di una storia, di una cultura, di un intero mondo) – “La lingua degli Ostjuden”, spiega, “lo yiddish, si presenta come il simbolo di un linguaggio intersoggettivo che realizza su scala internazionale l’immediatezza familiare ed esemplare del dialetto. Mentre le grandi letterature mondiali parevano esasperare le contingenze e le particolarissime fratture dell’uomo occidentale […], lo yiddish di milioni di umiliati e offesi sparsi pel mondo e uniti al di sopra d’ogni frontiera sembrava celebrare […] passioni perenni come l’omerico scudo di Achille” – e in questo modo consegna al lettore la sola chiave interpretativa possibile del romanzo, l’indispensabile bussola che permette non solo di non perdersi nelle quasi 800 pagine dell’affresco di Singer e nei circa 100 anni di storia raccontati, ma soprattutto di coglierne l’enorme ricchezza tematica (e il parallelo fervore stilistico).
In questo suo capolavoro doloroso e vibrante, ci dice Magris, Singer, fedele alla propria lingua (lo yiddish è il linguaggio di una ben precisa comunità, quella degli ebrei ashkenaziti, cioè tedeschi, emigrati dalla Germania in Polonia e in alcuni territori della Lituania e dell’Ucraina per sfuggire alle persecuzioni), al suo significato e al suo contesto, prende le mosse dal particolare: dapprima egli segue l’eco di quella lingua, ne descrive il rincorrersi e il moltiplicarsi nei cortili, nelle case, nelle strade povere e polverose dei villaggi (shtetl, in ebraico), ne sottolinea le vibrazioni malinconiche ed esaltate trasmesse durante le preghiere in sinagoga e in famiglia, negli elaborati riti di celebrazione del Sabato e delle altre festività.
Poi, quasi per forza d’inerzia, lo scenario si amplia; l’autore scompone tutto ciò che la lingua ha creato semplicemente evocandolo, pronunciandolo, e lo inserisce in un contesto più ampio; nello scorrere del tempo, nel formarsi di pagine di storia (I fratelli Ashkenazi copre un periodo che va dalla prima metà del XIX secolo fino agli anni trenta del successivo, un arco di tempo segnato dagli sconvolgimenti del primo conflitto mondiale e della rivoluzione russa), Israel Joshua Singer segue il brulicare di vita della cittadina polacca di Lodz, nata come agglomerato di tessitori, intrecciando le private vicissitudini delle famiglie che la abitano (le più ricche ed eminenti al pari delle più povere e insignificanti; e in particolar modo quella di Reb Abraham Hirsh e dei suoi due figli gemelli Simcha Meyer e Jacob Bunim, gli Ashkenazi che danno il titolo al romanzo) a ben più grandi rivolgimenti.
Moltiplicato da una interminabile teoria di specchi, ogni tratto distintivo di questa “comunità-mondo” che l’avvento del nazismo annienterà definitivamente – il fervore pietistico dei chassidim contrapposto al razionalismo degli ebrei “in odore d’ateismo”, che non possono non guardare con aperto disappunto, anzi con vera e propria ostilità, alla fede appassionata e cieca dei primi; l’attrazione-repulsione per i gentili e la loro realtà, in primo luogo quella degli affari mondani, del successo terreno, che gli ebrei aspirano non solo a raggiungere ma a dominare; la dedizione all’autorità e al lavoro e lo svilupparsi della coscienza individuale e di classe, fenomeno parallelo al progressivo mutamento di Lodz, che da piccolo, operoso centro specializzato nella tessitura a mano diviene primario centro industriale – varcano i propri confini per farsi temi universali.
Così, il ricorso a Dio nelle difficoltà adombra il tragico destino che attenderà gli ebrei negli anni bui del Reich hitleriano, proprio come nell’attivismo febbrile, astuto e vendicativo di Simcha Meyer, che, spinto dalla sua brama di potere, diventa il primo e più potente imprenditore di Lodz, salvo poi perdere tutto e riconsiderare, con amarezza e pentimento, molte delle sue scelte, riverbera il comandamento etico che ammonisce a non dimenticare quel che si è (dunque a non dimenticare Dio), per non dover sopportare il peso (intollerabile) della perdita di sé.
Mentre nella straripante volontà di vivere di Jacob Bunim, il gemello di Simcha Meyer, in tutto e per tutto diverso da lui, opposto nel fisico e nel carattere, risuona fortissimo il bisogno degli ebrei di essere compresi, accettati e amati e insieme la paura del compromesso, del prezzo da pagare per un’ombra di felicità, o solo per un istante di pace, per la promessa di una tregua.
Saga familiare, romanzo storico, preziosissimo testamento letterario, I fratelli Ashkenazi è un libro magnifico e potente, un’opera magistrale, che vive in quel miracoloso punto d’equilibrio dove s’incontrano il particolare e l’universale, il singolo e l’intero consesso umano.
Eccovi l’inizio. La traduzione (edizione Longanesi) è di Bruno Fonzi. Buona lettura.
Sulle strade polverose che dalla Slesia e dalla Sassonia, attraverso cittadine e villaggi devastati dalle guerre napoleoniche, entravano in Polonia, passavano lunghe processioni di carri e barrocci carichi di uomini, di donne, di bambini e di masserizie. Nei campi, i contadini polacchi, servi dei nobili locali, si fermavano dietro gli aratri e, facendosi schermo con la mano per ripararsi dal sole e dalla polvere, rimanevano a fissare quegli strani veicoli con quegli strani carichi. Le contadine, appoggiandosi alla vanga, rialzavano sulla fronte i fazzoletti colorati per veder meglio. Bambini dai capelli chiarissimi, vestiti soltanto d’una camicia di rozza tela, si trascinavano fuori dalle capanne di fango, dai recinti di fascine intrecciate, e con i cani del villaggio improvvisavano rumorose accoglienze ai viaggiatori.
ciao Paolo, alla prossima
Ciao Nino, grazie della tua benevola attenzione
(Y)
Lo sto finendo…..un Romanzo bellissimo
Sono felice che ti piaccia