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Lo scacco al re dell’ultima parola

Recensione di “Il grande sonno” di Raymond Chandler

Raymond Chandler, Il grande sonno, Feltrinelli
Raymond Chandler, Il grande sonno, Feltrinelli

“Non credo che il mio amico Philip Marlowe sia molto preoccupato di accertare se possieda o non una mente matura. Debbo riconoscere un’uguale mancanza di preoccupazioni per quanto mi riguarda. Se essere in rivolta contro una società corrotta vuol dire essere immaturo, allora Philip Marlowe è estremamente immaturo. Se vedere lo sporco dove c’è costituisce un’inadeguatezza di adattamento sociale, allora Philip Marlowe soffre di un’inadeguatezza di adattamento sociale. Naturalmente, Marlowe è un fallito, e lo sa. È un fallito perché non ha denaro.


Un uomo che, senza avere un handicap fisico, non guadagna abbastanza da potersi mantenere decentemente, è sempre un fallito, e di solito un fallito sul piano morale. Ma una quantità di uomini ottimi sono stati dei falliti perché i loro particolari talenti non si adattavano all’epoca e al luogo in cui gli è toccato vivere. A lungo andare immagino che siamo tutti dei falliti o non ci sarebbe il mondo che c’è”.

Così lo scrittore americano Raymond Chandler, nel 1951, descriveva il proprio eroe letterario, il cinico, disilluso e vinto detective privato Philip Marlowe. Riconosciuto maestro del “poliziesco realistico”, genere letterario il cui senso (e la cui dignità, mi sento di aggiungere), riposa nel non sottomettere l’intreccio alla tirannia affascinante ma tragicamente sterile della pura azione, Chandler presenta Marlowe quasi per sottrazione, traendone i tratti distintivi da un impietoso paragone con la realtà in cui vive e opera, con il suo mondo.

“Marlowe”, egli scrive, non disdegnando di sovrapporre, dal punto di vista etico, e perciò anche da quello politico, la figura della creatura a quella del suo creatore, “ha tanta coscienza sociale quanta ne ha un cavallo. Ha una coscienza personale, che è una faccenda totalmente diversa […]. A Marlowe non importa un cavolo di chi sia il presidente degli Stati Uniti. E neppure a me importa, dato che sarà sempre un politicante […]. Marlowe e io non disprezziamo le classi superiori perché fanno il bagno e possiedono denaro, le disprezziamo perché sono fasulle”. Chi è dunque, Philip Marlowe? È un Don Chisciotte che si è strappato di dosso il sogno, un uomo il cui sguardo ha la capacità di cogliere con particolare acutezza quel che la maggior parte della gente finge di non vedere, o peggio, cerca in ogni modo di nascondere, di dissimulare: gli inganni, i tradimenti, i compromessi più ignobili, le viltà. Philip Marlowe potrebbe essere un cavaliere se non sapesse che il tempo dei cavalieri, come qualsiasi altro tempo nel quale l’uomo è stato qualcosa di diverso da quel che è ora, non è che è leggenda, fiaba, illusione: non a caso, è proprio nella raffigurazione (tanto raffinata quanto inutile, patetica addirittura) di un cavaliere, nell’iconografia classica di un eroismo d’accademia, che si imbatte al principio della sua prima avventura (in realtà la quarta, come spiega Oreste del Buono nella bella postfazione al volume edito da Feltrinelli), Il grande sonno, sordida storia di ricatti, commercio clandestino di materiale pornografico e brutali omicidi: “Al di sopra dei portoni d’ingresso abbastanza ampi da lasciar passare un branco d’elefanti indiani, un gran pannello di vetro rappresentava un cavaliere dall’oscura armatura intento a liberare una dama legata a un albero e coperta solo dai lunghi capelli comunque strategicamente disposti. Il cavaliere aveva tirato indietro la visiera dell’elmo per darsi un aspetto più socievole, e armeggiava con i nodi delle funi senza combinare un tubo. Mi fermai un attimo a meditare che, se avessi abitato in quella bicocca, mi sarei prima o poi arrampicato a dargli una mano. Non dava l’impressione di mettercela tutta”.

Armato soltanto delle proprie convinzioni, tenacemente fedele a un rigoroso universo morale che non conosce deroghe né eccezioni, Marlowe non combatte che per uno scopo: quello della propria personale sopravvivenza. Egli non insegue la giustizia, il bene, o qualsiasi altra categoria del pensiero tanto generica da risultare inconsistente: Philip Marlowe è soltanto un uomo in mezzo ad altri uomini, conosce perfettamente i suoi limiti e soprattutto ha compreso che quel che si trova ad affrontare non ha alcuna grandezza, non merita altro che disprezzo, in qualche raro caso un’amara condiscendenza. Il dolore dentro cui scava, l’orrore che porta alla luce è sempre impastato di fango e miseria, perché fango e miseria sono la materia di cui è fatto l’uomo. E Chandler ne racconta le discese agli inferi con un’ironia implacabile e furente, chirurgico strumento d’indagine e “di verità”; egli osserva e descrive, le persone come le cose, astenendosi da ogni giudizio, conscio del fatto che è sufficiente l’aderenza dei fatti per muovere l’indignazione del lettore e il contemporaneo, beffardo atteggiamento di Marlowe, che nel sarcasmo pungente, nella battuta, nello “scacco al re” dell’ultima parola riafferma se stesso e insieme nega la propria appartenenza al mondo che vive e abita.

La prosa secca, essenziale di Chandler, che sembra non lasciare spazio a nulla di letterario, non è tuttavia mero strumento al servizio di una storia. Se l’autore sembra mantenersi neutrale rispetto a quel che descrive (lasciando la responsabilità della presa di posizione al sapido motteggiare di Marlowe), è semplicemente perché le sue descrizioni contengono già una scelta di campo, che il detective esplicita da par suo; allo stesso modo, Chandler non dimentica le regole del noir e costruisce trame solide, piene di colpi di cena, sorprese, false piste e verità sconvolgenti. Così, i suoi romanzi polizieschi “che si leggono tutti d’un fiato”, continuano a vivere anche dopo l’ultima pagina; nelle riflessioni del suo eroe, eco di quelle dell’autore, nel disegno di una società perduta di cui siamo parte, e, non ultimo, nell’ammonimento a non dimenticare quanto costa, a ciascuno di noi, questo diritto di cittadinanza.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.

Erano pressappoco le undici del mattino, mezzo ottobre, sole velato, e una minaccia di pioggia torrenziale sospesa nella limpidezza eccessiva là sulle colline. Portavo un completo blu polvere, con camicia blu scuro, cravatta e fazzolettino assortiti, scarpe nere e calzini di lana neri con un disegno a orologini blu scuro. Ero corretto, lindo, ben sbarbato e sobrio, e me ne sbattevo che lo si vedesse. Dalla testa ai piedi ero il figurino del privato elegante. Avevo appuntamento con quattro milioni di dollari.

4 commenti su “Lo scacco al re dell’ultima parola”

  1. ciao, letti tutti d’un fiato i romanzo gialli di questo tipo, saranno stati qualche centinaio;
    non so se ho letto questo, ma comunque mi é sembrato di ricordarlo,
    sei sempre bravo nella tua presentazione,
    mi verrebbe voglia persino di mettere fra virgolette alcune frasi, ma mi astengo, perché sarebbe solo una ripetizione della
    TUA
    bravura.
    Alla prossima

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