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“Non voglio dirtelo”

Recensione di “Il sangue è randagio” di James Ellroy

James Ellroy, Il sangue è randagio, Mondadori
James Ellroy, Il sangue è randagio, Mondadori

Tutto ha inizio con una rapina, chirurgica e sanguinosa. L’assalto a un furgone blindato carico di smeraldi e dollari che lascia sul campo poliziotti e malviventi (questi ultimi bruciati con un ritrovato chimico per impedirne l’identificazione) e vede fuggire un solo, misterioso uomo. Tutto ha inizio con un colpo audace e spietato che sembra dettato esclusivamente dall’avidità, dalla brama di ricchezza, ma che in realtà nasconde ben altro.


Tutto ha inizio a Los Angeles nel febbraio del 1964. Eppure questa storia così oscura e impenetrabile non è che un tassello di un mosaico ben più grande, il singolo passaggio di un vastissimo complotto, una tra le innumerevoli battaglie che compongono una guerra. Teatro degli scontri è l’America degli anni sessanta e sessanta, il Paese delle opportunità e della morte, degli scontri tra bianchi e neri, dell’odio di classe e di razza sparso a piene mani, dello strapotere dell’Fbi di Hoover, delle macchinazioni della mafia, delle promesse kennediane, del sogno di Martin Luther King e dei tragici risvegli di Dallas e Memphis, della questione cubana e della lotta interna al comunismo condotta con ogni mezzo, senza scrupoli; un’America raccontata in una prosa furente e meravigliosamente generosa da James Ellroy nella sua celebre trilogia americana, che dopo i magistrali romanzi American Tabloid e Sei pezzi da mille (entrambi già recensiti in questo blog) si conclude con lo splendido Il sangue è randagio.

Se a prevalere, nei primi due capitoli di questo indimenticabile affresco, è stata una sostanziale aderenza alla realtà dei fatti; se a emergere, pur in una ben definita dimensione estetico-letteraria e nel tumultuoso incalzare di una scrittura secca e straordinariamente incisiva, spietata come un’esecuzione e di ipnotica meraviglia nella sua violenza volutamente priva di mediazione, è stata una precisa volontà di documentare il passato, di testimoniarlo e attraverso la testimonianza giudicarlo – “L’America non è mai stata innocente” recita l’incipit di American Tabloid, un incipit che non ammette repliche – ne Il sangue è randagio a prendere decisamente il sopravvento è una dimensione onirica, allucinata.

La verità, in questo travolgente romanzo-fiume di Ellroy, è irraggiungibile: multiforme, liquida, inafferrabile, ha i contorni indefiniti e grotteschi del delirio, la morbida inconsistenza del sogno, l’ingannevole disponibilità del desiderio. E i personaggi che nella macabra danza orchestrata dallo scrittore americano le girano attorno (la gran parte dei quali era già presente negli altri due libri, che andrebbero letti prima di abbandonarsi a questo, a eccezione del giovane e tormentato investigatore privato Donald Crutchfield e delle tre donne attorno alle quali ruota l’intera vicenda, Joan Rosen Klein, attivista comunista, Karen Sifakis, pacifista di sinistra amante dell’agente dell’Fbi Dwight Holly, uomo di fiducia di Hoover e poi del neoeletto presidente Nixon, e infine la sfuggente rivoluzionaria Celia Reyes) sono ostaggi di un’ossessione, prigionieri di un’idea fissa, ottenebrati dal ricorso continuo alle droghe, segnati da esistenze impossibili da vivere; ognuno di loro, sempre a un passo dalla follia, cerca la verità nello stesso modo in cui l’insonne cerca la quiete, nello scientifico stordimento di tranquillanti e pastiglie o nell’evocativa alchimia delle pozioni “magiche” (a più riprese Ellroy si sofferma sui riti voodoo di Haiti e sui segreti procedimenti di zombificazione custoditi da sacerdoti e bokor), e tutto quel che trova si riduce a sospetto, a ipotesi, a fantasia, a immaginazione febbrile. Consumata dalle menzogne e dai doppi giochi, corrosa dal cortocircuito del pensiero logico indotto dagli stupefacenti, brutalmente negata da un silenzio ostinato, geloso, quasi che aprirsi, concedere fiducia al prossimo, chiunque egli sia, amico, amante, compagno, equivalga a perdere irrimediabilmente se stessi e dunque condannarsi a un destino mille volte peggiore della morte – “Non voglio dirtelo”, si sussurrano l’un altro, non appena giungono a sfiorare l’intimità di cuori e menti, i diversi personaggi del romanzo – la verità naufraga, ignorata, sacrificata in nome di qualcosa di più grande, di una causa cui donarsi anima e corpo, oppure venduta, contrabbandata per salvarsi la vita.

La geografia di questo mondo che non conosce giustizia ed è incapace di distinguere il bene dal male, è allo stesso tempo quella politico-affaristica degli Stati Uniti che, persa Cuba, feudo dei “bravi ragazzi” italoamericani, cerca un altro angolo di mondo, preferibilmente retto da un dittatore sanguinario e avido, da depredare, e quella violentemente idealistica dei gruppi clandestini d’opposizione che combattono la tirannia con la disperazione di una belva stretta d’assedio dai cacciatori; è quella patetica di uomini ridotti a pedine “sulla scacchiera di Dio” (o del caso) e quella fragilissima del domani, di un futuro condannato ad avanzare malfermo su arti amputati.

Sontuoso labirinto letterario, Il sangue è randagio è un romanzo di rara potenza; stilisticamente impeccabile (al pari dei precedenti capitoli), procede, tra colpi di scena, bestiale ferocia e momenti di intenso intimismo, al ritmo galoppante di una malattia; in un inarrestabile crescendo che è manifestazione di un purissimo genio letterario.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Mondadori, è di Giuseppe Costigliola. Buona lettura.

A UN TRATTO: il camioncino del latte svoltò bruscamente a destra e urtò il marciapiede. Il conducente perse il controllo del veicolo e colto dal panico inchiodò, sbandando di coda. Un furgone blindato della Wells Fargo finì con il muso contro la fiancata del camioncino. Ora seguitemi: 7.16 del mattino, South Los Angeles, tra l’Ottantaquattresima e la Budlong. Un quartiere di neri. Merdosi tuguri con i cortili lerci. I motori di entrambi i veicoli si spensero per l’urto. Il conducente del camioncino del latte andò a sbattere sul cruscotto. La portiera del guidatore si spalancò e l’uomo scese dal marciapiede. Era un negro sulla quarantina.

7 commenti su ““Non voglio dirtelo””

  1. ciao.
    Finalmente la recensione di un libro che ho appena letto:
    “Non voglio dirtelo” é una delle frasi più interessanti e ricorrenti di questo super tomo di infinite pagine che mi ha fatto compagnia per qualche giorno facendomi dimenticare i miei problemi quotidiani.
    Forse più avanti leggerò gli altri due precedenti.
    “Voglio dirtelo” ti invidio per la moltitudine di letture che sei capace di sfornare.
    ciao alla prossima … e …. ancora complimenti.

      1. ciao, l’altro giorno o forse ieri ho visto una bellissima intervista a Ellroy su LA7 per la presentazione del suo nuovo libro e ho fatto una considerazione sulle sue dichiarazioni:

        – questo scrittore ci mette anni a preparare un libro di 800 pagine e lo costruisce sulla storia “vera” di un periodo passato e quindi documentabile,
        – vive senza TV senza media di ogni genere,

        – é praticamente un solitario che vive nel passato.

        La mia ammirazione/invidia é aumentata, e tu lo conosci bene ?

  2. Non ho visto, purtroppo, l’intervista a Ellroy, appena tornato in libreria con “Perfidia”; grazie di avermela segnalata, chissà che non riesca a recuperarla. Conosco (non approfonditamente) e ammiro l’autore, e so che nella scritura si impone una disciplina assai rigida; del resto la letteratura lo ha salvato, per fortuna sua e di tutti noi

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