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Io sono lui

Recensione di “Sotto la città” di Arnaldur Indridason

Arnaldur Indridason, Sotto la città, Guanda
Arnaldur Indridason, Sotto la città, Guanda

Un uomo, ucciso nella sua casa a Reykjavik, e un biglietto scritto a mano trovato addosso al cadavere. Un biglietto dal significato misterioso. Chi è la vittima? E che cosa significa il messaggio? Cosa ha voluto dire l’assassino lasciandolo in bella vista? E a chi ha voluto dirlo? Ai poliziotti? A qualche amico del morto?


È un’inchiesta al buio quella che si trova ad affrontare il commissario Erlendur Sveinsson, il taciturno e ombroso investigatore inventato dal giallista islandese Arnaldur Indridason, nel romanzo Sotto la città, un’indagine che sembra complicarsi a ogni passo e che, come un complotto perfettamente congegnato, nasconde più di quanto progressivamente riveli.

In una sorta di percorso a ritroso, nel quale l’omicidio da cui tutto si origina si rivela in realtà l’atto conclusivo di una storia lunga e dolorosa, cominciata anni prima quasi per caso, Erlendur e la sua squadra si trovano alle prese con due realtà distinte, antitetiche eppure in qualche misura intrecciate l’una all’altra; da una parte quella imprevedibile dei rapporti umani, dall’altra quella chiara e misurabile della scienza, delle risposte spietatamente certe che seguono domande altrettanto precise. Chi è dunque la persona trovata uccisa nel suo appartamento? E perché nascosta in un cassetto della sua scrivania c’è una foto che ritrae la tomba di un bambina morta a soli quattro anni di età?

Dapprima con sgomento, poi con orrore crescente Erlendur scopre che l’uomo assassinato, di nome Holberg, era uno stupratore seriale, un maniaco; mai condannato per i suoi crimini, Holberg una volta venne denunciato, anche se la cosa poi non ebbe seguito, ed è proprio da questa denuncia, e dal suo ingiusto e scandaloso naufragio, che l’ostinato commissario della polizia di Reykjavik decide di partire per far luce sul suo omicidio. Nella sferza di un inverno che sembra non dover mai finire, Erlendur trova la sorella della donna violentata da Holberg e da lei viene a sapere che morì suicida; rimasta incinta in seguito allo stupro, scelse di tenere la bambina, e assieme a lei visse felice, quasi in una condizione di ritrovata serenità, finché la piccola, a soli quattro anni di età, morì, a causa di un’incurabile malattia genetica al cervello. La perdita fu troppo dolorosa da sopportare, e la donna finì per togliersi la vita. È dunque la foto della tomba della propria figlia, peraltro mai riconosciuta, quella che Holberg teneva a casa. Ma per quale ragione?

Nel momento in cui un omicidio per il quale sembrava non esserci movente – “Non ti pare il tipico omicidio islandese? […] Sciatto, inutile e commesso senza alcun tentativo di occultarlo, manipolare le tracce o nascondere le prove […]. Sì […]. Un patetico omicidio islandese” – diventa il tassello di un’oscura storia familiare, le pagine del romanzo, fino a quel punto inquiete, nervose, si fanno più torbide e dense, più crepuscolari, e in esse è come se si insinuasse una specie di stanca rassegnazione. Ogni legame tra le persone, tanto nei suoi aspetti positivi quanto in quelli più problematici, tragici perfino, diviene specchio di tutti gli altri ed Erlendur per primo, divorziato e a sua volta padre di due figli ormai adulti alle prese con problemi di alcol e droga, rivive le scelte fatte e gli errori compiuti nel dolore impotente di chi non ha potuto fare altro che assistere alla dissoluzione del proprio piccolo mondo.

E a tu per tu con la morte, frutto maturo e tragicamente consueto della “banalità del male”, non può far altro che proseguire nella ricerca di verità. Ed è esattamente a questo punto, di fronte all’inspiegabilità di una vita stroncata a soli quattro anni d’età da un male incurabile, che la vicenda prende una nuova piega; è a questo punto che la possibilità incontra la certezza e che la scienza, la ricerca genetica, si incarica di svelare quello che la ragione e l’intuito degli uomini possono soltanto sospettare. Ecco allora che dimprovviso ci si rende conto di come un atto odioso e vigliacco come uno stupro possa lasciare dietro di sé qualcosa di ben peggiore di una vittima; possa rivelarsi un’eredità, un male che non soltanto perpetua se stesso nel trauma inflitto, ma che rinasce, si fa nuova vita, e poi di nuovo muore, consumato da una tara che ignora di avere.

Per quanto intollerabilmente odioso e vile, infatti, l’atto della violenza sessuale condivide con quello d’amore, di cui è la più atroce aberrazione, la potenzialità di andar oltre se stesso, di replicare se stesso; e a ognuna di queste “repliche”, manifestazioni dello stupratore seriale Holberg, Erlendur Sveinsson è costretto a dare la caccia, nel tentativo di individuare quel momento di tanti anni prima che ha partorito (nellidentico modo in cui si dà alla luce un figlio che un domani ne genererà un altro, in un percorso di vita potenzialmente infinito) un’interrotta catena di sofferenze che ha legato a sé più generazioni, quell’infame brutalità che sarebbe dovuta finire con Holberg se soltanto la violenza e la malattia fossero sterili e non, invece, spaventosamente fertili. Se soltanto la scienza non avesse il potere, quasi soprannaturale, di rispondere alla più angosciosa delle domande dell’uomo: perché i bambini muoiono?

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Guanda, è di Silvia Cosimini. Buona lettura.

Il messaggio era stato scritto a matita su un foglio appoggiato sopra il corpo. Tre parole, incomprensibili per Erlendur. Si trattava del cadavere di un uomo sui settant’anni. Era disteso a terra sul fianco destro, adagiato contro il divano in un piccolo soggiorno, e indossava una camicia blu e un paio di pantaloni di velluto a coste marrone chiaro. Aveva anche un paio di pantofole. I capelli, un po’ radi, erano quasi completamente grigi. Erano macchiati di sangue uscito da una profonda ferita sulla testa. Sul pavimento, non lontano dal corpo, c’era un grosso portacenere in vetro, sfaccettato e con le stremità aguzze. Anche quello presentava tracce di sangue.

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