Recensione de “La marcia” di E.L. Doctorow
Inverno 1864. La guerra di secessione americana è quasi alla fine, e le forze dell’Unione, guidate dal generale William Tecumseh Sherman, stanno per sferrare l’attacco decisivo allo stremato ma non ancora vinto esercito confederato agli ordini del fiero generale Lee: il piano prevede l’assedio e la presa della città di Atlanta e una marcia forzata attraverso la Georgia fino a Savannah.
Poi l’avanzata in Carolina del Sud, con l’obiettivo di far cadere Columbia, e infine l’invasione in Carolina del Nord, a conquistare Raleigh. L’armata abolizionista del presidente Lincoln, sostenuta dalla forza del diritto, combatte in nome di un ideale, per un’America di uomini liberi e uguali, ma di questo sogno così prossimo a divenire reale, ben pochi, tra le migliaia di uomini in divisa, sono consapevoli; così come, tra le schiere nemiche, tra i figli di quel Sud arretrato e segregazionista disposto a tutto pur di salvaguardare il proprio assetto economico-sociale, non importa quanto ingiusto, soltanto una minoranza sembra rendersi conto di qual è la reale posta in gioco.
Ed è questo ciò che racconta il grande scrittore americano Edgar Lawrence Doctorow nell’intenso, travolgente romanzo La marcia: il caos individuale e collettivo scatenato da un conflitto fratricida che incombe sugli uomini e le cose come un maleficio, come l’imperiosa volontà distruttrice di un Dio colmo d’ira e risentimento. La marcia è un incrocio di singoli destini sullo sfondo di un evento destinato a segnare un’epoca e a fare storia: e di questi destini Doctorow narra lo svolgersi mescolando furia e pietà, speranza e morte, pazzia, violenza, orrore, miseria, vigliaccheria, opportunismo e slanci di limpido coraggio.
Nei soldati e negli ufficiali impegnati, su un fronte come su quello opposto, in un’estenuante lotta di sopravvivenza, l’autore vede simbolicamente riflessa l’umanità intera nelle sue insanabili contraddizioni, nella sua perduta nobiltà, nel suo disperato e tragico desiderio d’innocenza. Ed ecco che il Sud violato e violentato per odine del “tiranno” di Washington Abraham Lincoln è la dignità ferita e sanguinante di una ragione talmente chiusa in se stessa da non ammettere neppure la possibilità del torto; è l’indignazione impotente dei ricchi possidenti, dei “padroni” della terra e dei suoi frutti, dei signori degli schiavi di colore, per i quali da tempo immemorabile essi sono il pane, e il castigo, e l’arbitrio; è la rabbia cieca di chi vede dinanzi a sé i roghi e le devastazioni dell’invasore, e non sa comprendere come la cancellazione del proprio mondo possa essere un atto di giustizia.
E l’altra faccia del Sud è quella dei neri, che accolgono gli uomini e i carri dell’Unione come liberatori, e con loro gioiscono di una libertà che non hanno mai conosciuto e che gli si presenta come una vertigine, un abisso di possibilità e di scelte che solo a guardarlo mette paura, proprio come la vastità dell’orizzonte terrorizza l’uomo, perché gli offre, nuda, la misura esatta della sua insignificanza. E ancora il Nord che implacabile assoggetta città dopo città è la mano di una saggezza quasi ultraterrena che è stata capace di concepire un Paese nel quale tutti, un giorno, potranno dirsi semplicemente americani, ed essere americani, e vivere come americani, e nello stesso tempo è il miope sguardo di un uomo tra gli uomini che non ha saputo o non ha voluto immaginare quale fosse il prezzo da pagare per rendere concreta un’utopia. Un’utopia che da sola, per quanto giusta possa essere, non cancella gli stupri, le esecuzioni sommarie, le vendette, la degradazione dell’uomo a bestia che è il frutto primo di ogni guerra, non importa quanto necessaria, non importa quanto inevitabile.
La prosa di Doctorow, potente, epica, fragorosa e allo stesso tempo sommessa e intimista, disegna magnificamente gli scenari selvaggi di una natura matrigna perché nutrita di sangue innocente, ingrassata dalla carne giovane e intatta di centinaia di migliaia di poveri ragazzi; e in questo scenario insieme grandioso e misero dà vita a una galleria di personaggi splendidi nell’eroismo come nell’abiezione; il geniale e freddo ufficiale medico Wrede Sartorius, Pearl, schiava liberata, bianca di pelle come il suo patrigno ma nera e oppressa nel cuore e nell’anima come sua madre, la schiava sedotta dal padrone, i soldati sudisti Arly e Will, che più volte scampano alla morte convinti che ad attenderli, alla fine delle ostilità, ci siano un senso, una direzione, un perché. Mattie Jameson, madre e moglie del Sud la cui mente non regge il crollo della Confederazione, Emily Thompson, figlia di un vecchio e rispettato giudice georgiano che alla sua morte si unisce agli Unionisti e lavora come infermiera fino al giorno in cui qualcosa dentro di lei le ricorda chi è davvero e quale dovrebbe essere il suo posto, lo stesso Sherman, che per quanto con sincero dolore riesce a pensare ai suoi caduti solo come pedine da schierare sulle mappe di guerra, pedine che il nemico gli ha tolto di mano, e il suo avversario più pericoloso, il generale sudista Joe Johnston, ritratto esclusivamente attraverso le ammirate riflessioni di Sherman.
La marcia è un romanzo bellissimo, che non lascia al lettore un attimo di respiro; un affresco indimenticabile che ha il respiro dei grandi capolavori.
Eccovi l’incipit. L’ottima traduzione, per Mondadori, è di Vincenzo Mantovani. Buona lettura.
Alle cinque del mattino c’era qualcuno che bussava alla porta gridando, suo marito John che saltava giù dal letto, prendendo il fucile, e Roscoe che, svegliatosi nello stesso momento, veniva da dietro la casa facendo rimbombare il pavimento con i piedi nudi: Mattie si infilò la vestaglia in fretta e furia, preparata mentalmente agli allarmi della guerra, ma con la morte nel cuore al pensiero che alla fine fosse arrivata, e volò giù per le scale fino a scorgere dalla porta aperta, alla luce della lampada, davanti alla veranda, i due cavalli, nel vapore che si alzava dai loro fianchi, a testa alta e con gli occhi spiritati, il conducente, un negretto con le spalle curve, che mostrava anche in questo una stolida pazienza, e la donna che nella carrozza si stava alzando in piedi, e che altri non era che sua zia Letitia Pettibone di McDonough, con il viso non più giovane contratto dall’angoscia, i capelli sparsi sulle spalle, questa donna di così raffinata educazione, questa vedova che era l’anima della stagione ad Atlanta, ritta nel suo equipaggio come una profetessa di sventure, quale in effetti si sarebbe dimostrata.
“E’ sempre adesso” ?????
Nel senso che non é cambiato nulla ?
Gli uomini dopo tante guerre non hammo imparato un bel c…. di niente ?
Questa sarebbe la mia interpretazione, sbaglio ?
Ciao alla prossima (Y)
Ciao Nino. La tua interpretazione è validissima ma in realtà nel titolo ho soltanto voluto riprendere quel che ripeteva in continuamente uno dei personaggi del romanzo, un soldato unionista sopravvissuto a un assalto ma con un chiodo conficcato nel cranio che aveva compromesso la sua capacità di ricordare. Quel giovane non ricordava nulla; niente del suo passato ma neppure alcunché del suo presente. Dimenticava quel che gli veniva detto, e quel che diceva egli stesso, un attimo dopo averlo ascoltato o detto, e di continuo ripeteva “è sempre adesso” perché esclusivamente di quel momentaneo “adesso” aveva coscienza. Il titolo si riferisce a lui, ma ovviamente anche la sua vicenda è simbolica.
ciao Paolo, grazie per la precisazione.
Hai visto l’intervista a Elloy su LA7 ?
Se ti capita guardala
, io l’ho trovata illuminante, by bye