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La trasfigurazione letteraria della legge evolutiva

Recensione di “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson

Robert Louis Stevenson, L'isola del tesoro, Newton Compton
Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Newton Compton

“In principio era il buio. È nel buio della notte, magari una notte di tempesta, in una casa isolata nella brughiera, che si sprigionano i sogni […]. L’isola del tesoro è un manuale di archetipi. Tanto da indurre a chiedersi se non sia stato questo stesso libro a contribuire a crearli. Il pirata «Gambadilegno» per esempio […]. L’isola del tesoro […] fa sognare chi legge e chi ascolta, il presente perde di peso, il testo trasformato in voce si dipana come un filo evocatore, seguendo il quale, lettore e ascoltatore vengono trascinati lontano da una corrente di emozioni, un amniotico liquido scuro da cui emergono come indistinte isole, appunto, gli archetipi da riconoscere: il ragazzo-eroe che sa vincere le proprie paure, il signore scioccamente testardo, la favolosa ricchezza a un tempo stesso vicina e lontana […].


L’isola del tesoro è sempre qualcosa che non c’è. Il tesoro è quel che cerchiamo sempre nelle nostre vite, l’aspirazione al diverso, a ciò che è meglio di quel che abbiamo: e. forse, anche, che è meglio di quel che siamo. È la trasfigurazione letteraria della legge evolutiva: l’uomo, soprattutto l’uomo giovane, il ragazzo-eroe, deve cercare di migliorarsi, per crescere deve saper osare, deve fidare nel proprio istinto quando cerca soluzioni impreviste al pericolo immediato della morte. Un sogno che sempre rinasce contro la certezza, come dice Shakespeare, che «siamo tutti debitori di una morte a Dio» […]. Di un romanzo scritto più di cent’anni fa si dice a volte, per lodarlo, che è «moderno»: nel senso che quanto racconta, personaggi e vicende, appaiono credibili e attuali anche se portano la parrucca incipriata o indossano crinoline. I «classici» sono più che moderni: sono senza tempo”.

Con queste parole, vestite tanto del contagioso, fanciullesco entusiasmo del lettore quanto dell’acuta e puntuale capacità d’analisi del critico, Gianluigi Melega, nella prefazione all’edizione italiana dell’opera pubblicata da Newton Compton, presenta L’isola del tesoro, uno dei più celebri romanzi per ragazzi della storia della letteratura, il capolavoro riconosciuto (assieme a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde) dello scrittore scozzese Robert Louis Stevenson, apparso per la prima volta a puntate nella rivista Young Folks e pubblicato in volume nel 1883. E nelle sue parole risuona l’eco della tumultuosa, sorprendente prosa di Stevenson; abbagliato dallo splendore delle sue pagine, Melega ne restituisce l’essenza, che non soltanto riposa nella gioia incorrotta della narrazione, nel miracoloso atto creatore dell’immaginazione e della parola, capaci di rendere vera agli occhi e al cuore qualsiasi cosa venga detta o scritta nel momento stesso in cui la si pronuncia o le si dà forma compiuta su carta – “L’isola del tesoro”, fa notare a questo proposito lautore della prefazione, “sprigiona il suo fascino in particolare quando viene letto ad alta voce, da un adulto a un non adulto, quando le ombre della sera si siano già addensate, sulla soglia dei sogni e della notte” – ma riverbera purissima proprio nelle caratteristiche indicate.

Nella scelta dei personaggi, nella costruzione dell’intreccio, dove trovano spazio, respiro e vita l’inquietante cupezza del mistero, la maestosa meraviglia dei paesaggi, la labirintica complessità dei caratteri, la commedia, la tragedia e un’irresistibile canagliesca predilezione per un lieto fine che rimetta ogni cosa a posto senza tuttavia scivolare nello stucchevole, candido “e vissero tutti felici e contenti”, la storia del giovane Jim Hawkins, di Long John Silver e di tutti i loro compagni d’avventura sembra possedere il dono dell’immortalità; in una parola, L’isola del tesoro non si dimentica. E non solo per la maestria della scrittura, studiatamente semplice eppure assai ricca, incalzante, dettagliatissima senza mai essere ridondante (basti pensare al ritratto del truce filibustiere Bill Bones, che Stevenson ci regala proprio all’inizio del romanzo: “Alto, poderoso, bruno, con un codino incatramato che gli ricadeva sul colletto della sua bisunta giacca blu: le mani ruvide e ragnate di cicatrici, dalle unghie rotte e orlate di nero; e, attraverso la guancia, il taglio del colpo di sciabola d’un bianco livido e sporco […]. Egli era assai taciturno […]. A chi gli rivolgeva la parola evitava per lo più di rispondere: dava una rapida e irosa guardata, e soffiava per le nari come una tromba d’allarme; sicché tanto noi che gli avventori imparammo presto a lasciarlo stare”), ma soprattutto nell’essere, l’intero romanzo, una sorta di atto fondativo.

A partire dalla “antica canzone di mare” ripetuta senza sosta da Bones e ipnotico controcanto al succedersi degli avvenimenti – “Quindici sopra il baule del morto/Quindici uomini yò-ho-ho/E una bottiglia di rum per conforto!” – passando per l’animalesca brutalità dei pirati, per la loro rapace avidità, per il perfetto disegno fisico e antropologico grazie al quale non solo li si indentifica, li si riconosce, ma li si rende unici (li si trasforma in archetipi, come ben spiega Melega), fino ad arrivare al favoloso tesoro che dà il titolo al libro, ogni cosa è come se venisse costruita per la prima volta, modellata nella sua forma definitiva. Con anarchica leggerezza Stevenson detta le regole del racconto avventuroso; il suo è un canone che non ha nulla di ingessato né di formale, non pretende di insegnare, ma naturalmente conquista per virtù intrinseca. Come sempre fa la bellezza.

Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione è di Angiolo Silvio Novaro. Buona lettura.

Pregato dal cavalier Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della brigata, di scrivere la storia della nostra avventura all’isola del tesoro, con tutti i suoi particolari, nessuno eccettuato, salvo la posizione dell’isola; e ciò perché una parte del tesoro vi è ancora nascosta, – io prendo la penna nell’anno di grazia 17.. e mi rifò dal tempo quando il mio babbo teneva la locanda dell’«Ammiraglio Benbow» e il vecchio uomo di mare dal viso abbronzato e sfregiato da un colpo di sciabola prese alloggio presso di noi.

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