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Senza storia né Dio

Recensione di “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi

Aspra come i luoghi che racconta; riarsa, inospitale e matrigna. E aperta agli uomini, alle genti anonime che quella terra ostinatamente abitano, strappando giorno dopo giorno vita alle sue viscere nude, tempestando di scongiuri e stregonerie i corpi martoriati dalla febbre, consumati dalla malaria, erosi dalla fatica, stremati dal dolore, obbedendo istintivi all’imperativo della generazione, della carne, genuflettendosi, colmi di rispetto e amore, di fronte al mistero interamente umano della nascita.


Così è la prosa dello straordinario, indimenticabile romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli, cronaca del periodo di confino trascorso in Lucania dall’autore, punito dal regime mussoliniano (siamo nel biennio 1935-1936) per la sua attività antifascista; un procedere cauto e nello stesso tempo curioso alla scoperta di un mondo nuovo e sconvolgente che non può essere narrato se non attraverso parole, concetti, idee e immagini che, spogliate di ogni significato acquisito, di ogni senso compiuto e condiviso, risorgano riforgiate e innocenti a disegnare un’umanità altrettanto innocente e ferina, naturale in quella misura immortale e finanche stolida che è delle macchie d’erba, e dello scorrere infinito dei fiumi, e del sole che impietoso arroventa sassi e case, e del vento che infuria capriccioso tra burroni e strapiombi.

Un’umanità precristiana, o per dir meglio anticristiana, non raggiunta, non toccata da Cristo; un’umanità derelitta perché ignorata, condannata perché taciuta, che Levi, al principio del romanzo, minuziosamente descrive, strappando alla sua scrittura accenti di una pietà così estenuata e sincera da trovare pochi uguali nella storia della letteratura, non solo italiana: “- Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli -. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono al di là dell’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia”.

Chiuso e moribondo, disperatamente aggrappato a un’illusione di sopravvivenza (“Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria […] in questa terra oscura, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, che sta sempre nelle cose, Cristo non è disceso”), vinto sempre e comunque, questo universo splendido e macilento appare agli occhi stranieri di Levi, medico, scrittore, pittore, oppositore politico, uomo tra esistenze d’ombra, allo stesso tempo come un tesoro e un insopportabile scandalo. Nell’impietoso confronto tra i notabili del paese (il podestà, i due incapaci medici condotti) e la dignità goffa (ma robusta e genuina) del popolo minuto, di chi, incurante del peso dei giorni e degli anni, offre se stesso alla terra avara, sacrifica ogni cosa a quel dio così reale, incombente e ostile, l’autore vede tanto la miseria transitoria (e in fondo superficiale) del presente, quanto l’atrocità di una condizione radicata oltre il tempo, le cui ragioni, analizzabili soltanto in parte, stanno nella storia e al di là di essa, in tradizioni che affondano nel mito, in promesse di fedeltà ad affratellamenti e odi viscerali vecchi di centinaia d’anni, in una sensualità del vivere che non lascia spazio alla riflessione, all’oggettivazione, ma che tutto consuma in un’immediatezza che non tollera mediazione, che solo può esaurirsi nella materia, nella concretezza dominata dalla percezione, oppure esplodere nelle forme notturne e magiche che tutto ciò che è natura cela nel suo grembo: “I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei: corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dai letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte, e cadere i panni stesi in modo che si insudicino […]. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso, più grande di loro: e guai se lo perdono: tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non l’abbiano ritrovato. Il solo modo di difendersi dai loro scherzi è appunto di cercare di afferrarli per il cappuccio: se tu riesci a prenderglielo, il povero monachicchio scappucciato ti si butterà ai piedi, in lagrime, scongiurandoti di restituirglielo. Ora, i monachicchi, sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che c’è sotterra, sanno il luogo nascosto dei tesori”.

Cristo si è fermato a Eboli non è soltanto un capolavoro letterario, è una testimonianza limpida e coraggiosa, un’opera onesta e importantissima, un esempio sommo di cosa significhi (di cosa dovrebbe sempre significare) scrivere e assumersene, in pieno, la responsabilità.

Eccovi, invece dell’incipit, gli estratti di due tra le moltissime riflessioni critiche dedicate al romanzo. La prima, puntuale e penetrante, di Italo Calvino; la seconda, ideologica, fuorviante e sostanzialmente superflua, di Jean-Paul Sartre, che nel leggere il testo da un’ottica squisitamente esistenzialista intellettualizza eccessivamente (finendo per sterilizzarla) una riflessione che guarda al realismo e a un nudo, essenziale, umanesimo. Buona lettura.

[…] la peculiarità di Carlo Levi sta in questo: che egli è il testimone della presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore d’un altro mondo all’interno del nostro mondo. Possiamo definire questo mondo il mondo che vive fuori della storia di fronte al mondo che vive nella storia. Naturalmente questa è una definizione esterna, è diciamo la situazione di partenza dell’opera di Carlo Levi: il protagonista di Cristo si è fermato a Eboli, è un uomo impegnato nella storia che viene a trovarsi nel cuore d’un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più, sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo più complesse e più elementari.

L’universale singolare. Quando si incontra Carlo Levi, a Mosca, a New York, a Parigi, si è subito colpiti da una strana contraddizione: egli, dovunque si trovi, rimane il più romano dei romani […] ma nello stesso momento […] sembra ritrovarsi dappertutto come a casa propria […]. Ma ogni volta, dietro l’irriducibile singolarità del fatto raccontato, si può intravedere tutto un mondo – il nostro mondo – in quanto si esprime e si realizza nella qualità fuggitiva di una presenza subito dileguata. Darò a tutto questo il nome di senso, in contrapposizione ai significati. Il senso, ovvero l’incarnarsi del tutto in ciascuna parte, ecco ciò che conferisce ai discorsi di Carlo Levi un fascino inimitabile. Che quest’uomo così eccezionale vi racconti con la sua voce, le sue intonazioni, la sua fisionomia, il suo malizioso distacco […] un’effimera avventura da lui vista nascere e morire in un istante, è una singolarità selezionata da un’altra singolarità. E intanto Roma è là tutta intera, inafferrabile, opaca e presente: vissuta nella sua indecomponibile totalità. Discernere “natura” e “cultura”, però, non è possibile: i propositi dello scrittore non si distinguono da quelli dell’uomo. Essere se stesso, per Levi, significa ridurre l’universale al singolare. Scrivere è comunicare questo incomunicabile: l’universalità singolare. Con ciò, bisogna intendere che egli, come narratore, si è collocato nel medesimo nodo di contraddizioni che la sua vita rivela, e che Merleau-Ponty descriveva in questi termini: “I nostri corpi sono presi nel tessuto del mondo, ma il mondo è fatto della stoffa del mio corpo”.

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