Recensione di “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” di Brian Selznick
La fantasia, l’immaginazione; la precisione, l’esattezza; l’amore, la solitudine; il ricordo, il rimpianto. E l’universo delle parole e delle immagini che tutto contiene, il simile come l’opposto, e la suggestione del passato, della storia, di una stagione della vita colma di entusiasmo e gioia, che si intreccia con il sogno, il desiderio, la speranza. Sullo sfondo, una città addormentata e indifferente, assediata dall’inverno, ridotta al silenzio dalla gelida carezza della neve, che solo nel chiuso della stazione ferroviaria brulica di voci, di pensieri, di segreti.
E nella stazione, tra cunicoli e stanze nascoste, un ragazzo orfano e un automa meccanico costruito soltanto in parte, un uomo fatto di ingranaggi, di ruote dentate e pulegge e perni e cremagliere che attende di essere rimesso in sesto, di tornare a funzionare, di raccontare la sua storia. E infine un vecchio, un vecchio amareggiato e stanco, proprietario di un chiosco di giocattoli, nascosto nel suo negozio come un animale nella tana. Il materiale narrativo de La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick è tutto qui, in un pugno di personaggi ottimamente caratterizzati e in un’ambientazione affascinante e insolita, e in sé, occorre riconoscerlo, non ha nulla di notevole; eppure l’autore, quasi fosse un alchimista, o un mago (o più probabilmente un abilissimo illusionista) in grado di trasformare il più vile degli elementi nel più nobile dei metalli, prende le mosse da questa curiosita semplicità e finisce per dar vita a qualcosa di splendido e per molti versi indimenticabile: egli infatti ricostruisce, intrecciando mirabilmente verità e finzione, gli anni più fecondi e felici di Georges Méliès, uno dei padri del cinema, colui che primo portò sullo schermo il fantastico, l’impossibile, il meraviglioso.
“Ho atteso a lungo”, scrive Selznick al termine del suo romanzo, nelle pagine dedicate ai ringraziamenti, “di scrivere una storia su Georges Méliès, ma questa storia ha iniziato a prendere davvero forma quando ho letto un libro intitolato Edison’s Eve: A Magical History of the Quest for Mechanical Life di Gaby Wood. Il libro parlava della collezione di automi di Méliès, che fu donata a un museo, dove venne dimenticata in una soffitta umida per essere infine buttata via. Ho immaginato un ragazzo che trovava le macchine nella spazzatura e in quel momento sono nati Hugo e questa storia”.
Selznick, scrittore e illustratore, guarda ai secoli passati, allo stupore e all’incredulità che suscitavano nel pubblico le creazioni degli scienziati settecenteschi (la papera di Jacques de Vaucanson, il bambino scrivano di Pierre Jaquet-Droz, di professione orologiaio), e sceglie, come simbolo tanto della libertà creatrice quanto delle potenzialità della conoscenza, del sapere, in special modo di quello matematico, un automa meccanico, un “miracolo scientifico” in grado di imitare alla perfezione il comportamento di un uomo in carne e ossa. E da tutto questo, dall’attrazione che sull’illusionista Méliès, sul cineasta Méliès, sull’uomo che inventava nuovi mondi e li regalava non a un pubblico di “banchieri, casalinghe e commessi” ma a “stregoni, sirene, viaggiatori, avventurieri, illusionisti” (quel che ciascuno di noi realmente è), esercitava la vita meccanica, l’esistenza artificiale replicabile in laboratorio, egli racconta del giovanissimo Hugo, figlio di un orologiaio prematuramente scomparso, custode (come lo zio cui è andato in affidamento dopo la scomparsa dei genitori) degli orologi della stazione ferroviaria di Parigi, che nel chiuso della sua stanza-rifugio, nascosto agli occhi di tutti, si dedica a ricostruire un misterioso uomo meccanico cui fino all’ultimo giorno della sua vita aveva lavorato il padre. E quell’uomo artificiale, creatura fra le mille altre del genio instancabile di Méliès, ormai anziano, incattivito, sconfitto dalla realtà che nei suoi film aveva talmente abbellito da renderla irriconoscibile, condurrà, dopo mille peripezie, il giovane dall’anziano, come un figlio dal proprio genitore, e a entrambi, proprio come potrebbe fare un uomo dotato di sentimenti, volontà e raziocinio, un essere vivente, restituirà speranza e voglia di rimettersi in gioco, di ricominciare.
Selznick racconta con intensità e dolcezza, rendendo il giusto omaggio a entrambi i propri talenti e alternando a testi brevi e incisivi splendide immagini in bianco e nero che sono parte integrante della vicenda; non mancano neppure riproduzioni dei fondali dei film di Méliès, eco del commosso ricordo di ciò che era stato e che il cineasta aveva fatto ogni sforzo per dimenticare: “I miei genitori facevano scarpe […]. Volevano che lavorassi nella loro fabbrica, ma io detestavo le scarpe. L’unica cosa che mi piaceva di quella fabbrica erano le macchine. Ho imparato ad aggiustarle da solo, e intanto sognavo di andarmene e diventare un illusionista. Così, quando sono stato abbastanza grande, ho venduto la mia quota della fabbrica e ho comprato un teatro specializzato in spettacoli di magia. Mia moglie mi faceva da assistente. Eravamo felicissimi. Avevo un laboratorio speciale sul retro, dove costruii il mio automa, che al pubblico piacque moltissimo. Poi i fratelli Lumière inventarono il cinema. Mi innamorai a prima vista di quella invenzione e chiesi loro di vendermi una cinepresa. I Lumière rifiutarono e fui costretto a costruirmene una da solo, usando i pezzi avanzati dall’automa. Presto scoprii che non ero stato l’unico illusionista a passare al cinema. Molti di noi capirono che era stato inventato un nuovo tipo di magia e volevano tutti farne parte. La mia bellissima moglie divenne la mia musa. Girai centinaia di film e pensavamo che non sarebbe mai finita. Come sarebbe potuto accadere? Poi arrivò la guerra e quando terminò c’era troppa competizione e tutto andò perduto”.
La straordinaria invenzione di Hugo Cabret è un romanzo prezioso, una lettura adatta a ogni età (come dimostra il bellissimo film che ne ha tratto, nel 2011, Martin Scorsese), un esperimento perfettamente riuscito.
Eccovi, invece dell’incipit, la breve prefazione a cura del professor H. Alcofrisbas (scoprirete chi è alla fine del romanzo, e sarà una bella sorpresa, non l’unica, peraltro, celata tra le pagine di questo libro). La traduzione, per Mondadori, è di Fabio Paracchini. Buona lettura.
La storia che sto per svelarvi ha inizio nel 1931, sotto i tetti di Parigi. Qui incontrerete un ragazzo di nome Hugo Cabret, che un giorno, tanto tempo fa, scoprì un misterioso disegno che cambiò la sua vita per sempre. Ma prima che voltiate pagina, voglio che immaginiate voi stessi, seduti nel buio, come all’inizio di un film. Sullo schermo sorgerà il sole fra pochi istanti e la macchina da presa inquadrerà una stazione nel cuore di una città. In un atrio pieno di gente vedrete finalmente un ragazzo che si muove rapidamente. Seguitelo, perché quello è Hugo Cabret. La sua mente è piena di segreti e sta aspettando che la sua storia abbia inizio.
ciao Paolo,
mi hai fatto rivivere un pomeriggio al mare in una iornata nuvolosa,
al cinema con mio nipote e un film che ci é piaciuto,
grazie alla prossima
nino speaking
giornata non iornata
Ciao Nino, grazie a te