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La Terra delle Promesse

Recensione di “Il sindacato dei poliziotti Yiddish” di Michael Chabon

Michael Chabon, Il sinsacato dei poliziotti yiddish, Rizzoli
Michael Chabon, Il sindacato dei poliziotti yiddish, Rizzoli

Da una parte la storia, i fatti così come si sono svolti, dall’altra l’invenzione, lo scarto brusco dell’immaginazione; e l’intrecciarsi di ciò che è stato e di quello che sarebbe potuto accadere che dà vita a un presente “senza tempo”, espressione di uno stato di cose nel quale realtà e possibilità coesistono senza contraddizione apparente e dove ogni accadimento, dal più banale al più straordinario, profuma d’incredulità, suggestiona come una specie di miracolo, stupisce, o meglio stordisce, come il tragicomico destino di un singolo, di un popolo, di una nazione, dell’intero mondo.


Da una parte, dunque, il passato: l’orrore incancellabile dell’olocausto nazista e la battaglia per la vita, per il diritto alla vita, dei sopravvissuti allo sterminio, e dall’altra uno scenario spalancato su un’alternativa, rappresentata dalla distruzione del neonato stato di Israele, annientato nel 1948 dal feroce attacco sferrato da una coalizione di Paesi arabi. Cosa sarebbe successo se, al termine del secondo conflitto mondiale, lo stato di Israele non fosse nato? Che ne sarebbe stato degli ebrei? Dove avrebbero potuto trovare rifugio? Dove li avrebbe condotti la loro diaspora millenaria?

Domande cui offre una risposta, puntuta e perfidamente ironica com’è nel suo stile, lo scrittore americano (di famiglia ebraica) Michael Chabon nel romanzo Il sindacato dei poliziotti yiddish, riflessione spassosa e grottesca (ma non priva di risvolti inquietanti) sul significato dell’ebraismo inteso tanto come fede religiosa quanto come appartenenza al sangue e alla terra, e dunque considerato sia da una prospettiva escatologica sia da un punto di vista politico-sociale. Chabon scommette sulla fantasia, sull’improbabilità, sull’assurdità del suo impianto narrativo – magistralmente sottolineato da una prosa vivacissima, ricca di metafore e giochi di parole, ridondante d’aggettivi e d’irresistibile ilarità nei dialoghi, spesso ridotti a un virtuoso scambio di arguti motteggi – e trasporta la terra promessa (o meglio, la terra concessa in sostituzione di una promessa mancata, oppure, per chi ancora ci crede, non ancora mantenuta) nel più sperduto angolo del pianeta: il distretto di Sitka, in Alaska. “Che genere di posto è il distretto di Sitka? […]. La dimora di cinque milioni di persone che lavorano sodo […]. Il frutto dell’ingegno di Harold Ickes, ministro dell’interno del presidente Franklin D. Roosevelt […]. Uno dei due soli distretti federali mai creati dal Congresso, lungo 240 chilometri e largo 40 nel punto più ampio […]. Un luogo di fede e di dubbio, di tecnologia innovativa e antichi rituali, di alci e matzot, di yiddish e inglese (ma anche di tedesco, ungherese, polacco russo) […]. Forse non sarà la Terra Promessa, ma di certo è la Terra delle Promesse. Ma quando, vi chiederete, verranno mantenute quelle promesse? Buffa come domanda…”.

Nell’infernale, febbrile luna park di Sitka, in un luogo che è simbolo d’abbandono e di sconfitta ma che, nonostante ciò, gli ebrei si sforzano ogni giorno di chiamare casa, nella desolazione di una geografia politica speculare all’inospitale indifferenza di quello spazio ghiacciato e buio dove la notte è “fatta di nebbia e della luce dei lampioni a vapori di sodio” e “ha la trasparenza offuscata delle cipolle cotte nel grasso di pollo”, il protagonista del romanzo – anarchico, travolgente divertissement letterario che mescola noir e spy story, esplora, oscillando tra scetticismo e astuto ammiccamento il più che complesso universo dell’ortodossia, elegge il gioco degli scacchi (e la sua storia) a trasparente allegoria della vita e naturalmente non dimentica di riflettere sull’amore – il detective della squadra omicidi Meyer Landsman, divorziato da poco ed eccessivamente dipendente dalla bottiglia (“Secondo i medici, gli psicologi e la sua ex moglie, Landsman beve per curarsi, per sintonizzare le valvole e i quarzi dei suoi stati d’animo con un rozzo martello fatto di slilovitz […]. Quando c’è da combattere il crimine, Landsman sfreccia per Sitka come se avesse un razzo impigliato nei pantaloni. È come se alle sue spalle suonasse una colonna sonora, con parecchie nacchere. Il problema sono le ore in cui non lavora, quando i pensieri volano fuori dalla finestra spalancata del suo cervello come pagine di verbale. A volte, per tenerle ferme, ci vuole un fermacarte bello pesante”), si ritrova a investigare sull’omicidio di un uomo, un certo Emanuel Lasker (scacchista e matematico tedesco che fu campione del mondo dal 1894 al 1921, quando fu sconfitto dal cubano José Raul Capablanca). Chi si cela davvero dietro la falsa identità di Emanuel Lasker? E perché è stato ucciso con un colpo di pistola alla nuca? E perché accanto a lui c’è una scacchiera con i pezzi abbandonati nel bel mezzo di una partita, anzi nel momento di un “finale ingarbugliato, con il re nero sotto scacco al centro e i bianchi in vantaggio di un paio di pezzi”?

Per rispondere a queste domande (che non sono poi così diverse da quelle, già viste, su Sitka e sul perché gli ebrei sono finiti a vivere proprio qui) Landsman, assieme al compagno Berko e alla ex moglie Bina, che di colpo il detective si ritrova come capo (con le conseguenze che si possono immaginare per il suo equilibrio e la sua autostima), sarà costretto a mettere in gioco tutto se stesso, a ripensare non solo il suo essere ebreo, ma il suo essere ebreo tra ebrei, il suo essere laico e disilluso tra fedeli ultraortodossi e sbirro tenace e implacabile tra criminali incalliti. Perché “sono tempi strani per esser un ebreo”, tempi gravidi di sogni ma popolati d’incubi.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Rizzoli, è di Matteo Colombo. Buona lettura.

Da nove mesi Landsman dorme all’Hotel Zamenhof e fino a ieri nessuno degli altri clienti era ancora riuscito a farsi ammazzare. Ora qualcuno ha piantato una pallottola in testa all’occupante della 208, un ebreo di nome Emanuel Lasker. «Al telefono non rispondeva, non apriva la porta» dice Tenenboym, il, portiere di notte dell’albergo, mentre tira giù dal letto Landsman. Landsman abita nella 505, con vista sull’insegna al neon dell’albergo sull’altro lato di Max Nordau Street. Si chiama Blackpool, la pozza nera, una parola che compare negli incubi di Landsman. «Ho dovuto forzare la porta». Il guardiano notturno è un ex marine che con la sua dipendenza da eroina ha chiuso negli anni Sessanta, tornato a casa dal macello della guerra di Cuba. Per la popolazione di tossici dello Zamenhof nutre un interesse materno.

5 commenti su “La Terra delle Promesse”

  1. Piena di curiosità, ho aggiunto il libro alla mia wishlist e spero di leggerlo a breve. Mi piacciono molto le storie sullo stile “e se…” se scritte bene e questa promette di stupire davvero.
    Grazie della dritta.

    1. Ciao Veronica, questo a mio parere non è il miglior lavoro di Chabon, ma a tratti è spassoso e merita comunque una lettura, anche perché a ben guardare ci sono spunti interessanti. Ho visto il tuo blog, complimenti e buon lavoro!

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