Recensione di “I dolori del giovane Werther” di Johann Wolfgang Goethe
“Sul più famoso romanzo del più famoso scrittore tedesco sono stati versati fiumi di inchiostro per dimostrare che si tratta di un romanzo sociale (eversione della morale corrente), e sotto sotto politico (l’insofferenza wertheriana verso la nobiltà), o storico o, per meglio dire, di un documento delle condizioni in cui versava la borghesia in Germania dieci-quindici anni prima della Rivoluzione Francese. Ma non sarà addirittura un romanzo filosofico?
E, allora, sarà più importante l’influenza di Rousseau (che aveva scritto un romanzo epistolare) o di Spinoza, rintracciabile nel panteismo del giovane Goethe? Per non parlare delle interpretazioni religiose o addirittura misticheggianti – quante volte Werther è stato paragonato a Cristo? E, inoltre, trattandosi del più importante romanzo dello Sturm und Drang, sarà da considerare pre-romantico o post-illuminista?
Si potrebbe seguitare a elencare le interpretazioni e i problemi che sono stati rovesciati sulle spalle di questo piccolo libro scritto da un ragazzo di venticinque anni. Goethe, alla fine, voleva scrivere un romanzo d’amore – e questo ha fatto, il resto viene dopo. Eppure quello che ci hanno visto critici letterari, critici della cultura, filosofi, psicologi, storici e sociologi è in larga parte plausibile.
La grandezza del primo romanzo di Goethe è proprio nel fatto che, parlando d’amore, parla di tutto. D’altronde, la ricchezza di significati non è tipica dei grandi capolavori?”. Con queste parole Giorgio Manacorda, nella prefazione all’edizione de I dolori del giovane Werther pubblicata da Newton Compton, presenta e descrive quella che è, nello stesso tempo, un’opera prima e un classico della letteratura, un manifesto (del Romanticismo tedesco) e un epistolare romanzo d’amore certamente ricco di suggestioni ma non esente da ingenuità, una lettura imprescindibile e una mistificazione (priva di malafede, ma non per questo innocente) travestita da coraggiosa presa di posizione filosofica ed esistenziale. Quel che Manacorda tiene a sottolineare è che I dolori del giovane Werther vive delle (e nelle) contraddizioni che esprime, esalta e infiamma per la radicalità delle posizioni assunte, per la parzialità esagerata, scandalosa del suo protagonista, quel Werther che nella lunga serie di lettere scritte all’amico Wilhelm compone il proprio epitaffio e per il quale il suo creatore, al principio del romanzo, chiede comprensione, affetto, partecipazione: “Ho raccolto con cura tutto ciò che ho potuto trovare intorno alla storia del povero Werther e lo espongo qui: e so che me ne sarete grati. Non potrete negare ammirazione e affetto al suo spirito e al suo cuore, né lagrime al suo destino. E tu, anima buona, che provi le sue stesse angosce, trova conforto nel suo dolore; questo libretto divenga il tuo amico se per colpa tua o della sorte non puoi trovarne uno più prossimo”.
Dalle interpretazioni storiche, politiche, sociali e filosofiche di quello che altro non è se non una travolgente, esasperata storia d’amore e di morte, da tutte le intellettualistiche letture che, per quanto legittime, hanno il torto di non cogliere, di questo romanzo, altro che aspetti tralasciando l’essenziale, Manacorda ci invita a liberarci; egli le tiene in considerazione (chiedendoci di fare altrettanto) come prova della vastità degli interessi culturali e della maturità letteraria dell’autore, ma saggiamente le lascia da parte nel momento in cui deve inquadrare il romanzo, definirlo, rivelarlo: Goethe, ci dice, parla d’amore, e così facendo riesce a parlare di tutto, ma la storia che racconta è quella del suo eroe sconfitto Werther, della sua passione infelice per Charlotte, promessa a un altro uomo, e della sua invincibile pulsione di morte che finisce per condurlo al sacrificio estremo. La scrittura di Johann Wolfgang Goethe, di selvaggia bellezza, intrisa di dolore e folle di speranza, eco dello straziante canto di un’anima, scuote e sconvolge e riesce a dare plausibilità all’assurdo, a offrire un’ombra di razionalità all’irragionevolezza, a vestire d’eticità l’illusoria e vile fuga dalla sofferenza e dalla delusione di Werther; ed è proprio in questo totale ribaltamento di prospettiva, nel mondo alla rovescia frutto di amorose corrispondenze destinate a non giungere mai alla maturità, a non compiersi, che riposano la meraviglia e lo splendore de I dolori del giovane Werther. Goethe, e con lui il suo giovane ed entusiasta personaggio, si abbandonano ai tirannici capricci dell’amore e accettano che questa inarrestabile “potenza spirituale” sconvolga ogni cosa perché è il disordine dei sensi e della realtà a nutrire i vivi; in pari tempo cittadini e sudditi di questa fremente “repubblica dei pazzi”, Goethe, Werther e in qualche misura perfino Charlotte non possono sopportare alcun principio ordinatore, nessun “buon senso borghese”, nessuna regola sociale. La libertà, pura e assoluta, questa libertà di cui l’amore è l’espressione più completa e autentica, è l’unica misura dell’esistenza, per questo Werther muore con coraggio, ammirato e rimpianto, per questo, attraverso la sua scelta, egli abbraccia un destino d’immortalità. E non importa nulla che il suo destino abbia la consistenza del sogno.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Newton Compton Editore, è di Angelo G. Sabatini e Anna Maria Pozzan. Buona lettura.
Come sono contento di essere partito! Amico mio carissimo, che cos’è mai il cuore dell’uomo! Aver abbandonato te, che amo tanto, dal quale ero inseparabile, e sentirmi contento! Ma so che mi perdonerai. Tutte le altre relazioni non parevano scelte apposta dal destino per angosciare un cuore come il mio? Povera Eleonora! Eppure io ero innocente. Che cosa potevo io fare se, mentre i vezzi capricciosi di sua sorella mi procuravano piacevole passatempo, la passione andava accendendosi nel suo cuore? Eppure… sono proprio innocente? Non sono stato io ad alimentare i suoi sentimenti? Non ero io a deliziarmi delle ingenue espressioni della sua natura, che spesso ci facevano ridere, quantunque fossero così poco risibili? Non ero io… Oh, che cos’è mai l’uomo, che può rammaricarsi di se stesso!