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Un’eterna menzogna chiamata nazione

Recensione di “L’imperio” di Federico De Roberto

Federico De Roberto, L'Imperio, Rizzoli
Federico De Roberto, L’Imperio, Rizzoli

Concluso ma non esaurito l’affresco di un’Italia opportunista, vile e corrotta raccontata, nello splendido romanzo I Vicerè, attraverso “il decadimento fisico e morale di una stirpe esausta” (quella degli Uzeda di Francalanza, discendenti da una nobile schiatta spagnola), lo scrittore napoletano Federico De Roberto prosegue nella sua dolente, infiammata, irosa ma non per questo meno lucida, meno penetrante riflessione politico-sociale – “L’Italia è una putredine, e Roma è il cancro che la distrugge.


Questo è un Paese che il diavolo dovrebbe portarselo via. Tutta la nostra vita è uno schifo, uno schifo, uno schifo” – nel “romanzo parlamentare” L’Imperio, frutto di un lungo e tormentato lavoro, più volte abbandonato e ripreso nell’arco di una quindicina d’anni e sfortunatamente rimasto incompiuto.

La continuità di quest’opera con I Vicerè (il riconosciuto capolavoro di De Roberto nonché il suo scritto più celebre), resa esplicita dalla figura del protagonista, quel Consalvo Uzeda, rampollo viziato e mellifluo sprezzante degli uomini e del mondo che emerge nell’ultima parte de I Vicerè dapprima come immaturo ragazzetto di poco o nessun valore dedito soltanto ai piaceri, poi come giovane deciso a conquistare a qualsiasi costo la gloria mondana che per soddisfare le proprie ambizioni sceglie la carriera politica divenendo, in rapida successione, assessore, sindaco e deputato (e che ne L’imperio troviamo per l’appunto deputato, impegnato con tutte le sue forze a imporsi all’attenzione del bel mondo romano, a far incetta di ammirazione e consensi, a rendersi indispensabile, a sognare, in luogo di un banco alla Camera indistinguibile da centinaia d’altri, uno scranno ministeriale), è soltanto la bussola narrativa de L’Imperio, una sorta di aiuto al lettore, che nel seguire Consalvo non ha difficoltà a familiarizzare con scenari completamente nuovi (i luoghi della vita istituzionale; il cinico, arruffato ed elitario circolo dell’informazione giornalistica, con i suoi intoccabili maestri al cui fianco scalpitano le nuove leve; i salotti della borghesia illuminata; il teatro, goffo e scandaloso, dei lavori parlamentari) né a conoscere gli altri attori della vicenda raccontata, a partire dall’entusiasta Ranaldi, il contraltare “umano e politico” di Consalvo, idealista l’uno laddove l’altro è un continuo mutar d’opinione spinto unicamente dalla promozione del proprio egoistico interesse, tanto schiuso alle tempeste della passione e delle idee il primo quanto astuto e freddo calcolatore il secondo. In questo legame, evidente ed estrinseco, il romanzo respira e cresce, ma non vive, perché Consalvo, qui più ancora che ne I Vicerè, è un espediente letterario, il grimaldello con il quale l’autore intende scardinar serrature mai prima d’allora tentate, raggiunger nuovi confini, affacciarsi su abissi non ancora intravisti, non ancora immaginati: “il romanzo che voglio scrivere è tale da fare colpo. Sarà, se riuscirò a finirlo, un libro terribile; dovrà fare l’effetto di una bomba […]. Un libro grande, nel quale dire cose che forse nessuno ha dette ancora”.

Allora ecco che Consalvo non è che il testimone e il simbolo di un’universale rovina; i suoi vizi, il suo trasformismo, il suo essere, secondo la convenienza del momento, “uno e centomila”, la sua immorale doppiezza, lungi dall’essere semplicemente i tratti distintivi di un uomo, sono le caratteristiche di una nazione perduta e prostituita, di un suolo che non merita il nome amato di patria bensì quello esecrato di terra di conquista.

Ne L’Imperio De Roberto ricorre alla finezza psicologica, a un umanesimo critico e disilluso per descrivere non un singolo o un insieme di individualità ma un Paese intero dilaniato dagli egoismi, dai particolarismi, dagli interessi di parte, incamminato verso un’inevitabile rovina. E per quanto allo scrittore (uno dei grandi nomi dell’Italia letteraria) non riesca il radicalismo espresso nelle intenzioni, per quanto il suo più che giustificato furore, la sua motivatissima indignazione, non giungano a conclusioni realmente nuove, all’individuazione di sconvolgenti verità mai sospettate (nella sua ironia garbata e sottilmente feroce, nell’aristocratica eleganza della prosa, per esempio, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa ferisce ben più di quanto faccia il tumultuoso raccontare di Federico De Roberto), L’Imperio, al pari de I Vicerè, merita la considerazione che si deve ai grandi romanzi: ricco nello stile, acuto nei ragionamenti, e soprattutto di straordinaria e inquietante attualità nelle tesi espose e nelle conclusioni tratte, quest’opera entra di diritto nel novero dei classici. Leggetela dunque (ma rigorosamente dopo aver ceduto alla fascinazione de I Vicerè), ne rimarrete conquistati.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Quando Ranaldi s’affacciò dal parapetto della tribuna, appoggiandovi la destra armata del cannocchiale, l’aula era spopolata. Scoccavano le due, e per aver salito più che in fretta le scale, dalla paura di perdere il principio dello spettacolo, il giovane ansava. Era anche un poco confuso e intimidito. Il bersagliere di guardia, al portone; più su, al primo piano, l’usciere che lo aveva avvertito di dover lasciare la mazza; l’altro usciere che, ancora più in alto, nella saletta già popolata di giornalisti vociferanti, gli aveva chiesto di mostrare la tessera, quasi sospettando in lui un intruso; quell’apparato, quella diffidenza, i visi sconosciuti, l’ignoranza della via, l’errore d’essere entrato nella sala del telegrafo prima di fare l’ultimo tratto di scale, lo avevano impacciato e quasi intimorito.

2 commenti su “Un’eterna menzogna chiamata nazione”

  1. ciao Paolo, dopo aver letto poche righe, nella mia completa ignoranza, credevo si trattasse di un romanzo attuale visto come la descrizione si adattava perfettamente alla situazione attuale del nostro paese.
    Grazie per avermelo fatto conoscere, alla prossima

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