Recensione di “Ma non è una cosa seria” di Luigi Pirandello
“Il teatro di Pirandello è il tragico e altissimo documento e monumento della fatalità che parve, all’aprirsi del tempo nuovo, ruinare l’umana civiltà e tutte le sue conquiste di venticinque secoli, facendo dell’uomo uno scoiattolo che passa la vita a far girare vorticosamente la sua piccola prigione.
La vita delle persone pirandelliane è grottesca e terribile: sono esse le vittime, non più come in Sofocle, della crudeltà d’Olimpo che le saetta dalle nubi; non più, come in Shakespeare, della indomabilità delle loro stesse passioni; non più, come in Ibsen, d’una legge morale ch’essi non sanno considerare se non come convenzione sociale:
sono le vittime della torbida e lucida persuasione d’un immane nulla tutt’intorno all’uomo, centro e insieme circolo estremo d’un universo di raggio infinito, vittime della sostituzione di un ‘così è se vi pare’ all’apprendimento e all’accettazione vitale d’una costruzione di leggi”. Alle parole di Massimo Bontempelli, alla sua razionale disamina del teatro di Luigi Pirandello, fa ecco il giudizio che lo stesso autore dà del proprio lavoro – “Teatro serio il mio. Vuole tutta la partecipazione dell’entità morale-uomo. Non è teatro comodo. Teatro difficile, diciamo teatro pericoloso. Nietzsche diceva che i greci alzavano bianche statue contro il nero abisso, per nasconderlo. Sono finiti quei tempi. Io le scrollo, invece, per rivelarlo… È la tragedia dell’anima moderna” – e che sfocia nel concetto-chiave di tragedia, sinonimo d’insensatezza, di radicale, assoluta irrazionalità. Allo stesso tempo cuore ed estrema periferia d’un modo senz’ordine né misura, l’uomo (figura reale, metafisica e perfino mitica) di questo mondo è creatore e creatura, ma la sua è un’universalità sterile, apparente, illusoria; lungi, infatti, dal somigliare a un laborioso, indaffarato ragno intento a tessere la propria tela, egli è interamente vissuto da eventi che non comprende se non in minima parte, e che sempre sembrano farsi beffe della sua volontà, delle sue decisioni, di ogni deliberazione, di qualsiasi progetto. E la finissima psicologia pirandelliana, la complessa semplicità della sua scrittura, l’ironia garbata e pungente che attraversa le sue pagine danno conto di questa dolente condizione esistenziale muovendo sì al riso, certamente invitando il lettore a osservare con divertito disincanto quella patetica “fiera delle vanità” che è la vita, ma pure ammonendo a non dimenticare la nostra natura, a non commettere l’errore di pensarci salvi. Che nulla meriti di essere considerato “serio” (nella particolarissima logica pirandelliana, che è denuncia dell’irrimediabile sconfitta di ogni logica, o se si vuole presa di coscienza del trionfo della follia) è affermazione che ha un ben preciso significato e una altrettanto definita conseguenza: da essa non procede la liceità, o peggio il diritto, di guardare esclusivamente al nostro egoistico interesse (considerando questo modo di agire il solo ragionevole, e dunque in qualche misura anche il solo morale in un orizzonte che è caos), di condurci come meglio crediamo, bensì, all’esatto opposto, la consapevolezza di quanto questa scelta sommi pazzia a pazzia. Se in luogo di un’irraggiungibile serietà non v’è che l’esplodere dell’assurdo, l’accendersi del grottesco, la realtà che si fa caricatura di sé, cosa può esserci di più tragicomico e insensato dell’affannosa rincorsa al proprio benessere? Se non v’è progetto, piano o intendimento che non sia destinato a naufragare o addirittura a ritorcersi contro colui che lo ha messo a punto, che senso ha prendersi il disturbo di elaborarlo e sprecare forze nel tentativo di concretizzarlo?
Ecco dunque che scoprire “la grande menzogna” del mondo e rinunciarvi è forse l’unica forma possibile di saggezza, e non a caso è proprio a questa conclusione che giunge Memmo Speranza, l’incallito seduttore protagonista della spumeggiante commedia in tre atti Ma non è una cosa seria. Innamorato di tutte le donne (perciò di nessuna), egli ha un solo cruccio: evitare che le sue conquiste riescano a condurlo all’altare, e per difendere la propria libertà non esita a fare appello alla filosofia illustrando, in uno spassoso confronto, il suo personale concetto d’eternità al professor Virgadamo, di professione pedagogo: “Io ce l’ho a morte con lei, senta, professor Virgadamo! […]. E con tutti i suoi colleghi, sissignore! Voi che insegnate alle donne! Ma che cosa insegnate? […] Scusate: non abbiamo forse sentito tutti, in certi momenti, aprirsi, accendersi dentro di noi come una luce d’altri cieli, che ci permette di vedere nelle più misteriose profondità de l’animo, che ci dà la gioia infinita di sentirci in un attimo… in quell’attimo – eterni – e che s’è vissuto – e che può bastare? – Ecco, questo, professore! Insegnare alle ragazze il concetto di quest’eternità […] l’unica consentita all’uomo: chiusa e vissuta veramente in un solo momento, che non può più ripetersi, che non può esser più quello; ma fastidio, stanchezza, nausea, prigionia insopportabile, a volerlo perpetuare!”. Ma nel momento in cui, trovato il modo di risolvere il suo cruccio – attraverso un falso matrimonio con una donna verso la quale non nutre nessun interesse – superato l’ostacolo con la logica, la ragione e un pizzico d’astuzia, Memmo si ritrova davvero innamorato, innamorato come mai pensava sarebbe stato, innamorato di una sola donna, ecco che tutto il suo argomentare (così come il suo agire) appare inutile e privo di senso, mentre il matrimonio, divenuto da mero espediente oggetto del desiderio, risorge sotto una nuova luce. In questo continuo gioco di ribaltamenti di senso e di prospettiva, in questo gioioso filosofare che per ogni assurdità trova rigorosi passaggi logici, quasi si trattasse di severe dimostrazioni matematico-scientifiche, a trionfare alla fine sono la consuetudine, la normalità, la quieta ricchezza del quotidiano, magistralmente incarnate nelle figure simboliche di Gasparina Torretta, la donna falsamente presa in moglie da Memmo e infine sposata realmente, e dello stesso Memmo, che nel dichiararsi a Gasparina confessa a se stesso per primo la propria scelleratezza: “Se ti dicessi sul serio che mi sono stancato, nauseato della mia pazza vita di scapestrato, degli amici stupidi e delle donnette più stupide, e delle signorine più stupide ancora? Proprio stancato, sai? Proprio nauseato! […]. Se ti dicessi che questo lo sento ora; lo sto sentendo ora, qua, con una sincerità che mi fa quasi paura, perché è una sorpresa anche per me stesso; qua, ora, davanti a una donnina che s’è fatta bella, non so come! Per qual prodigio d’amore! […]. Ebbene, se ti dicessi questo?”.
Commedia leggera, raffinata, coinvolgente, ricchissima di trovate e di folgoranti scambi di battute, Ma non è una cosa seria è un’opera splendida, un piccolo, scintillante gioiello letterario.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Sala da pranzo della Pensione Torretta -. Grande tavola apparecchiata nel mezzo della scena per il pranzo. Altri tavolini con tovaglie e qualche portafiori. Nella parete di fondo, due usci con tende verdi a frange giallo d’uovo; quello a destra è la comune, quello a sinistra introduce nella camera occupata da Grizzoffi. Tra i due usci monumentale credenza – vecchio arnese di rivendita – con tazze, bottiglie, ecc.- Nella parete di sinistra, divano di juta verde, anch’esso con frange giallo d’uovo, poltrone, un tavolinetto per fumare, un altro per riviste e giornali; un uscio con tenda come sopra, che introduce nella camera occupata da Barranco. – Nella parete di destra, una vetrina con stoviglie da tavola e un uscio che conduce alla cucina. Alle pareti un orologio a pendolo, oleografie di caccia e frutta. – La Pensione è di famiglia, assai modesta.