Recensione di “Corri, Coniglio” di John Updike
“[…] un personaggio cruciale, degno di collocarsi accanto al Gatsby di Scott Fitzgerald, all’Augie March di Bellow, allo Holden di Salinger, con una carica al tempo stesso realistica e simbolica. Nasceva con Harry Angstrom, detto Coniglio, un significativo esemplare di uomo senza qualità, figlio della «folla solitaria» teorizzata da David Riesman in un’altra opera paradigmatica”. Così Claudio Gorlier, nell’introduzione all’edizione pubblicata da Guanda di Corri, Coniglio di John Updike, inquadra l’antieroe protagonista di questo celebre romanzo, passo d’avvio di una saga che conta in tutto quattro libri.
Identificato (di più, interpretato, spiegato) dal soprannome, quel buffo e a prima vista innocuo Coniglio guadagnato giovanissimo sui campi di basket – dove negli anni verdi della scuola Harry Angstrom ha avuto modo di sfoggiare il suo unico talento, la sua sola capacità: sfuggire agli avversari che inutilmente cercavano di marcarlo e andare a canestro – Coniglio, a neppure trent’anni d’età è un uomo che sembra già aver interamente vissuto e si trova ormai alle prese con un disastroso bilancio esistenziale.
Sposato (con l’esile e incolore Janice, donna non priva di attrattive ma senza più la forza, il carattere, la volontà di imporsi, di farsi notare, di rivendicare il rispetto che le è dovuto, e ridotta a dipendere dal televisore e dalla bottiglia), padre di un bimbo di due anni tragicamente simile alla madre (come lei ha mani piccole, non ha ereditato le estremità enormi, carismatiche e “magiche” di papà, quelle che lo hanno reso famoso, anche se in un tempo ormai dimenticato, così nebuloso e distante da parere quasi mitico, e come lei mostra di non aver carattere, affoga nella timidezza, annaspa nella paura e ha nel pianto il suo solo, inutile rifugio) e in attesa di un altro figlio, Coniglio Angstrom obbedisce a un unico principio, tanto banale quanto potenzialmente distruttivo: quello della ricerca, insistita, cocciuta, sorda a qualsiasi altra istanza, della propria felicità, della propria soddisfazione.
E pur ignorando la teoria secondo la quale si può considerare bene la semplice assenza di male, egli segue per istinto una strada di questo genere e, soffocato da una vita famigliare che non riesce a sentire sua (quasi non l’avesse scelta o, una volta scelta, non avesse voluto che diventasse così e non si considerasse in alcun modo responsabile del fallimento e dell’infelicità che lo circondano), un giorno, improvvisamente, decide di fuggire, di abbandonare moglie e figlio senza una parola, di riprendersi la libertà che gli è stata sottratta, e con essa la vita.
Scappando, allontanandosi, consegnandosi alla strada e all’orizzonte, Coniglio placa la sua ansia, gode di quella tranquillità vana e perfetta che ha l’identico sapore dell’incoscienza del sonno, e la assapora come fosse la più pura forma di felicità possibile all’uomo. Una felicità cui non servono piani, progetti, ambizioni, mete: “Vuole andare verso sud, più avanti, più avanti sulla carta geografica, tra aranceti e fiumi fumiganti e donne a piedi nudi. Sembra abbastanza semplice, guidare per tutta la notte, durante l’alba, durante il mattino, durante il pomeriggio, parcheggiare su una spiaggia, togliersi le scarpe e addormentarsi di colpo sul Golfo del Messico. Destarsi con le stelle perfettamente intervallate lassù in perfetta salute”.
Ma la fuga si trasforma in trappola nel momento in cui il suo essere mezzo, e strumento di affermazione di sé, coincide con il suo essere fine; non stupisce, dunque, che Coniglio, tornato uomo libero in quell’assordante silenzio etico ed esistenziale che altro non è se non momentaneo, fragilissimo sollievo da un dolore che è ovunque, ossessivo e immortale come un dio, eterno come un maleficio, dopo ore e ore di inutile vagabondare torni a casa, nell’oscuro microcosmo di Mount Judge, sobborgo di Brewer, Pennsylvania.
È qui, a pochi isolati di distanza dal suo appartamento, che Coniglio si tuffa nella sua seconda vita, affrontandone, con fanciullesca incoscienza e virginale entusiasmo, i nodi cruciali: l’amore (nella sua tormentata relazione con Ruth, prostituta per necessità presentatagli dal suo ex allenatore Marty Tothero), il rapporto tra umano e divino (dapprima indagato con il reverendo Eccles, prete episcopale che si assume il compito di riportare Angstrom in seno alla sua famiglia e poi drammaticamente esposto nella sua insolubilità nel tagliente faccia a faccia tra Eccles e l’inflessibile pastore luterano Kruppenbach, alla cui congregazione Coniglio appartiene) e tra se stesso e il suo passato (rappresentato dallo stesso Tothero, la prima persona cui Coniglio si rivolge dopo la fuga, e insieme anche da Janice, dalla quale torna dopo la nascita del secondo figlio, una splendida bambina che i due decidono di chiamare Rebecca June), l’irrompere, inaspettato e terribile, della tragedia (quando Janice, ubriaca, annega la figlia neonata tentando di farle il bagno), la responsabilità di ogni scelta (nel momento in cui, tornato da Ruth dopo l’ennesima fuga, Coniglio la scopre incinta. Sarà dunque di nuovo padre, ma lo vuole davvero?). Fino all’ultima e forse definitiva evasione.
E ogni cosa, ogni avvenimento, ogni pensiero, Updike osserva e racconta con la sua scrittura agile e sincera, colma della stordita incredulità di Coniglio, alle prese con un mondo troppo complesso per lui, e spumeggiante di rabbia e risentimento come l’anima lacerata di Ruth, insultata dalla vita, e insicura e timida al pari della povera Janice, per la quale il mondo sembra non aver trovato un posto, e dubbiosa e cauta nel timoroso rispetto di tutto quel che è vita e morte: “Il bene e il male […]” dice Tothero a Coniglio all’indomani della morte accidentale della figlia, inciampando goffo in un tentativo di consolazione che vorrebbe anche spiegare la ragione per cui è successo quel che è successo, salvo finire per non spiegare nulla ed esaurirsi in una banale esemplificazione dell’automatismo stimolo-risposta applicato alla morale, “non piovono dal cielo. Noi. Siamo noi a volerli. E paghiamo con l’infelicità. Invariabilmente, Harry, invariabilmente […] l’infelicità segue ai torti. Non la nostra infelicità, spesso a tutta prima non la nostra”. E libera infine, libera e multiforme fino all’incoerenza, fino alla romantica, innominabile possibilità di essere qualsiasi cosa che Coniglio non riesce a smettere di inseguire.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione per Guanda è di Bruno Oddera. Buona lettura.
Ragazzi giocano a pallacanestro intorno a un palo del telefono sul quale è inchiodata la tavoletta della reticella. Gambe, grida. Il raschiare e lo scrocchiare dei Keds sui ciottoli sparsi del viale sembra catapultare alte voci nell’umida aria di marzo azzurra sopra i fili. Coniglio Angstrom, facendosi avanti nel viale con il vestito da lavoro, si ferma e osserva, benché abbia ventisei anni e sia alto un metro e novanta. Così alto sembra un coniglio improbabile, ma la larghezza del viso bianco, il pallore delle iridi celesti, e un tremito nervoso sotto il naso corto mentre si ficca in bocca la sigaretta, spiegano in parte il soprannome, appioppatogli quando era ragazzo anche lui.
Il grande Gastby che hai citato. Mi piace moltissimo.
Se ti interessa, Il grande Gatsby , romanzo che amo molto anche io, lo trovi recensito.
Un caro saluto
Io lo adoro davvero tanto come romanzo
È un grande romanzo, un romanzo importante