Recensione di “Roma senza Papa” di Guido Morselli
Città impossibile da abitare eppure indimenticabile. Città-mondo che esplode di contraddizioni, città-sirena dalle irresistibili lusinghe e città-memoria, che decadente si specchia nel proprio passato trionfante e polveroso. Città esausta, giunta alla fine del secolo curva su se stessa come un vecchio, e città divisa, arena d’angeli e demoni, cancello del paradiso e baratro infernale, sovrastata da un cielo diviso, il “cristiano” e il “romano”, destinati a restare “di segno opposto”.
Tra libera invenzione creatrice e ispirato sguardo profetico, è questa la Roma che Guido Morselli descrive nel suo sorprendente romanzo Roma senza papa (pubblicato nel 1974, un anno dopo il suo suicidio): uno scrigno prezioso e dimenticato, un laboratorio di pensieri, idee, possibilità e certezze, uno scantinato oscuro d’alchimista nel quale incessantemente si lavora alla scoperta di quella pietra filosofale che ha nome verità, una gigantesca, affollata aula d’università medievale dove dibattere di Dio e degli universali.
E più di tutto un simbolo, il simbolo di un’età nuova, di un fermento che ancora sfugge a una precisa lettura, a un’interpretazione condivisa, e che ha tanto i contorni nobili di un nuovo Rinascimento quanto l’inquietante profilo d’ombra di una decadenza precipitosa, inarrestabile. La Città Eterna, il cuore della spiritualità cristiana, nelle pagine ironiche e inquiete di Morselli vive sconvolgimenti profondi: fatica a riconoscere i ministri del culto che ora, come i protestanti, possono contrarre matrimonio – “In Italia, unico paese europeo dove l’istituto familiare conservi una qualche validità di facciata […] si vede nella Chiesa un ente ausiliario della famiglia, che cioè deve servire alla famiglia (garantire la fedeltà delle mogli, l’illibatezza delle ragazze) ma non può, non deve servirsene. Oggi, come ai giorni di Stendhal, il confessore è l’arma segreta dei mariti: e come fa a esserlo se è marito anche lui? Spagna e Portogallo hanno accolto la novità con disciplina se non addirittura con favore, gli italiani stentano a comprendere – e a perdonare” – e, cosa ben più importante, rifiuta se stessa e la subalternità cui l’ha condannata, settecento anni dopo l’onta della “cattività avignonese”, la scelta del Papa, l’irlandese Giovanni XXIV, di abbandonare il Vaticano per ritirarsi nella vicina e dimessa Zagarolo.
In questa dimensione quasi irreale, sospesa tra cieca attesa e rancoroso sconforto, Roma, e l’Italia tutta, e la complessa fratellanza d’anime rappresentata dalla cristianità altro non sono se non un concetto ancora indistinto, una scintilla di vita suscettibile di divenire qualsiasi cosa, l’espressione purissima della potenza aristotelica; con vivo coraggio e brillante intelletto Morselli si spinge nel futuro guardando alla storia (maestra di vita) e mescolandone i verdetti, le assoluzioni, le condanne, gli errori (i tragici come i grotteschi) con il caleidoscopio dell’immaginazione più sfrenata, provocatoria e dissacrante: “La Chiesa volta a volta si è messa contro l’uso del tabacco, la vaccinazione, il parto indolore, gli anticoncettivi, l’eutanasia, e alla fine ha dovuto approvare tutto. Incanalare i fenomeni sociali, non ignorarli o combatterli, questa è sapienza cristiana: non l’odium theologicum, o l’intransigenza velleitaria […]. L’Oriente, dove l’oppio e la canapa indiana fanno parte dell’alimentazione comune da duemila anni, possiede pure quel profondo senso del divino che in Occidente abbiamo perso da un pezzo, con tutte le nostre inibizioni, i nostri tabù igienici”.
Non più certo di se stesso e non ancora del tutto smarrito, vicino a sbocciare tanto quanto ad appassire, il credo di questa Roma (e di coloro, religiosi e laici, che la abitano, in qualche misura archetipi dell’umanità del nuovo millennio) ha la voce curiosa e prudente di un sacerdote svizzero, padre Walter, tornato nella capitale dopo trent’anni di assenza per essere ricevuto in udienza dal Papa. Sorprese, dubbiose, compiaciute, divertite, le riflessioni di quest’uomo sono altrettanti punti di vista su una società fragilissima, mutevole, priva d’identità, e insieme segnano il faticoso percorso (simile all’incedere incerto ma cocciuto di un bimbo) di una coscienza individuale e collettiva, stretta tra il richiamo del passato (rassicurante, malgrado le gravi imperfezioni, in massima parte perché conosciuto) e le nebulose attrattive di un futuro gravido di promesse, o forse di minacce: “[…] sono sceso a Castel Sant’Angelo. Mi sono fermato a osservare di lì la prospettiva verso la piazza e la basilica. I monumenti che sono costati al cattolicesimo, e ne valeva la pena, lo scisma protestante […]. Adesso che la Controriforma cede (dopo quattro secoli) alla pro-Riforma, San Pietro è soltanto un mausoleo […]. Oggi tutto vi tace, anche se per diciassette chilometri di appartamenti, cappelle, logge e biblioteche, è offerto un serbatoio di opere d’arte al cui confronto scompaiono l’Hermitage e il Louvre”.
Consumata tra incontri, ricordi e riscoperte, l’attesa del religioso protagonista del romanzo, dilatata da ritardi e inconvenienti, si colora di atmosfere surreali, kafkiane; e la misura di questo tempo, pur senza essere, come accade nei lavori del grande scrittore ceco, espressione dell’angoscia, dello smarrimento, della disperazione e del non senso, vive, temperata soltanto in parte da un’ironia puntuta e furente nel suo impeccabile garbo formale, in una tensione sempre rinnovata, nel silenzio elettrico che precede lo scoppio del temporale: “Mi voltai a salutare con lo sguardo la Finestra, che si parava di rosso nelle domeniche della mia gioventù. Sotto l’obelisco, come allora, camminavano coi piedi pesanti due carabinieri, i pennacchi affiancati annuenti sulle lucerne. E c’erano i ragazzi che strillavano e si scapaccionavano davanti al negozio delle Suore Paoline. Qualche vecchio taxi fermo all’imbocco di Via della Conciliazione. Una fila di fedeli, o turisti, che tagliavano la Piazza in obliquo, sotto il sole, venendo verso di noi”.
Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.
Mi sono votato a fare a piedi gli ultimi trenta chilometri del mio pellegrinaggio. Il Papa ci riceve sabato mattina. Intanto per allenarmi salgo-scendo quella faticosa scenografia che è la Roma storica, più sorprendente che bella per un occhio elvetico, e cioè gotico, come il mio. Ma le voglio bene, io che dovrei venerarla; un attaccamento profano, banale oltretutto. Umano. Dal ’68 al ’72 i miei giorni fervidi li ho vissuti qui, giovane aiuto-minutante che trovava appena il tempo di dir messa, e i superiori (il povero, caro Mons. Marin, del resto accanito nel lavoro lui stesso) gli rimproveravano di chiudersi a chiave in ufficio la domenica pomeriggio. Sono già andato a rivedermi il «casamento». Via della Conciliazione, l’asfalto e il travertino fra cui è sfiorita la mia primavera.
ciao Paolo
ora sono in vacanza e diversamente da tutti non leggo nulla;
passeggio sul mare, fotografo tutto quello che vedo, nuoto e libero la mente da tutti i problemi di Milano
Ti leggerò al rientro da Varazze. (Y)
Ciao Nino, buone vacanze. E buona lettura per quando rientrerai