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La ferita aperta di ogni giorno

Recensione di “Amy e Isabelle” di Elizabeth Strout

Elizabeth Strout, Amy e Isabelle, Fazi Editore
Elizabeth Strout, Amy e Isabelle, Fazi Editore

Passaggi di tempo che il dolore, il rimorso e il rimpianto fanno sembrare eterni. Stagioni rapprese, congelate nell’identico, infinito ripresentarsi di un unico giorno. Piccole, incessanti onde di marea di dubbi, segreti, desideri e angosce, di frustrazioni e ansie, di sogni a occhi aperti di anime febbricitanti e corpi insonni che si rovesciano sulla terra arida e incolore di un tempo percepito come condanna, affronto, offesa, di un esistere indecifrabile e labirintico che non concede tregue e non conosce pietà.


Passaggi di tempo che una madre e una figlia, allo stesso tempo unite e distanti come le generazioni che incarnano, bisognose l’una dell’altra eppure nemiche, più simili, nella carne e nello spirito, di quanto riescano a immaginare e nonostante ciò velenosamente estranee, paiono sopportare più che vivere, subire più che accettare. Passaggi di tempo estenuati e lenti, che fiaccano le membra e annebbiano il pensiero, che velano lo sguardo e pesano su ogni cosa come colpe; polvere d’ore e di settimane che si posa dappertutto, invade ogni cosa trasfigurandola, insinuandocisi come fosse una malattia, una maledizione, o forse una follia. Passaggi di tempo a Shirley Falls, una cittadina della provincia uguale a tante altre, tagliata in due da un fiume inquinato e arrogante, “una cosa piatta stesa lì, al centro della città, come un serpente marrone morto, con la schiuma giallastra a raccogliersi sulle sponde” e gonfia della disperazione silenziosa dei suoi abitanti.

Una manciata di case e negozi, la scuola e una fabbrica dalla quale dipende la gran parte della popolazione, Shirley Falls, sonnolenta e inquieta, fa da sfondo alle vicende narrate in Amy e Isabelle, delicato e commovente romanzo d’esordio della scrittrice statunitense Elizabeth Strout, storia di una madre e di una figlia, storia d’amore e di odio, d’innocenza perduta e felicità ritrovata, storia di passaggi di tempo che sono indimenticabili istantanee di vita e scintillanti, purissimi momenti di bellezza e verità.

Il tempo, la personale percezione del tempo, è la chiave interpretativa di quest’opera di non comune intensità emotiva, raccontata nei toni discreti e insieme urgenti della confessione; il tempo giovane, adolescente, immaturo e travolgente d’aspettative e di mistero della sedicenne Amy e della sua migliore amica Stacy, figlia adottiva e ribelle di una coppia benestante che non appena scopre il sesso rimane incinta, e il tempo, parallelo e opposto, di Isabelle, madre single di Amy, donna ombrosa e chiusa in se stessa, le cui impeccabili maniere, fragile e approssimativo scudo contro i mali del mondo, le si ritorcono contro costringendola alla solitudine e all’emarginazione. E questo tempo individuale sovraccarico di sofferenza e d’attese fluisce docile negli slittamenti tra passato e presente che danno respiro al romanzo; in un continuo alternarsi di sorprese, di drammi e tragedie che esplodono d’improvviso, e dei loro perché, delle loro cause che poco alla volta emergono dalla scrittura potente, evocativa, limpida della Strout quasi fossero la traduzione di una lingua segreta, innominabile (la lingua della realtà, della vita quotidiana, che non possiamo comprendere ma solo accostare, sforzandoci di fare nient’altro che il nostro meglio), prende forma un mosaico di patimenti e meschinità nel quale i carnefici sono le prime vittime, dove a trionfare sono debolezze e paure ma che nonostante tutto riesce a conservare una propria generosa umanità, un desiderio d’affetto, condivisione e appartenenza che profuma di dignità e riscatto.

Ed è in questo slancio sincero, ingenuo e goffo che Amy, smarritasi nell’infatuazione per il proprio insegnante di matematica, riuscirà a ritrovare l’affetto per la propria madre e a riscoprire il significato profondo del loro stare insieme, mentre dal canto suo Isabelle, nel corso di una lunghissima, irripetibile notte, confesserà a due colleghe, delle quali quasi senza rendersene conto era divenuta amica, i suoi segreti più intimi, mostrando loro, per la prima volta dopo molti, molti anni, la parte più autentica di sé, quella che più di ogni altra la rende madre, e sorella (nelle tribolazioni, nei sogni, negli errori, nella responsabilità delle scelte), di Amy: “Una volta aprì gli occhi ed era chiaro, la luce del primo mattino cominciava a entrare nella stanza. Amy, sdraiata su un fianco, di faccia a lei, la guardava con occhi grandi e lucidi e un’espressione impossibile da decifrare. Proprio come quando era piccola e Isabelle si stendeva sul letto con lei per il sonnellino pomeridiano, cercando di farla addormentare. Ma ora il suo corpo era più lungo di quello della madre, aveva qualche punto nero negli interstizi del naso e del mento e un brufolo dispettoso le era spuntato in cima a una guancia. Eppure, aveva negli occhi lo stesso sguardo enigmatico che Isabelle ci vedeva quando aveva meno di due anni. «Amy», avrebbe voluto dirle Isabelle, «Amy, chi sei davvero? ». Invece, le disse piano: «Dormi». E la ragazza obbedì. Chiudendo gli occhi, aprendo appena le labbra, si riaddormentò”.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Fazi Editore, è di Silvia Castoldi. Buona lettura.

Faceva un caldo terribile l’estate che il professor Robertson lasciò la città e per molto tempo il fiume fu soltanto una cosa piatta stesa lì, al centro della città, come un serpente marrone morto, con la schiuma giallastra a raccogliersi sulle sponde. Gli automobilisti di passaggio sull’autostrada, nel sentire quell’odore soffocante di zolfo, tiravano su i finestrini e si chiedevano come si potesse vivere con quella razza di fetore che esalava dal fiume e dallo stabilimento. Ma gli abitanti di Shirley Falls ci erano abituati, e anche in quel caldo terribile ci facevano caso solo appena svegli; no, a loro l’odore non dava particolarmente fastidio. Quello che dava fastidio alla gente, quell’estate, era che il cielo non era mai azzurro e sembrava invece che la città fosse stata avvolta in una garza sudicia, una benda che ricacciava indietro qualunque raggio di sole tentasse di penetrarla, impediva il passaggio a qualunque cosa fosse quella che dava agli oggetti i loro colori e lasciava una vaga piattezza sospesa a mezz’aria: era questo che dava sui nervi alla gente, quell’estate, che la rese inquieta, dopo un po’.

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