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Disumano, non antiumano

Recensione di “Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde”

Robert Louis Stevenso, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Newton Compton
Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Newton Compton

Che non ci sia logica nella natura umana? Che possa, essa sola, misteriosamente, violare il principio di non contraddizione, vivere nell’unità degli opposti e accogliere il sé e l’altro da sé come semplici aspetti differenti di una singola sostanza? Che non ci sia, che non possa esserci, distinzione netta tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra vendetta e perdono, ma soltanto sfumature sottili, impalpabili diversità frutto di scelte, atteggiamenti, inclinazioni, debolezze? Che non sia altro che caos l’anima dell’uomo?


Queste domande, la cui radicalità da millenni rappresenta una delle sfide più impegnative per il rigoroso pensiero filosofico, e che la psicanalisi ha provato a esorcizzare ingabbiando l’essenzialità di pulsioni e istinti nel recinto medico-scientifico delle nevrosi e delle sindromi ossessive, la letteratura ha avuto il coraggio (e dunque il merito) di porle, rappresentandole attraverso eventi e personaggi, e in tal modo di discuterle, dimostrando di comprenderne, e rispettarne, importanza e urgenza. Allora ecco che a vestire l’invenzione romanzesca sono dilemmi morali, e valori e princìpi sulla base dei quali intere società si costituiscono, oppure si dissolvono, e azioni e decisioni che vivono ben oltre le conseguenze cui danno luogo e costringono il lettore a misurarsi con esse, a confrontarcisi, quasi fosse lui ad averle compiute. È la possibilità che quel che succede tra le pagine di un libro possa accadere anche nella realtà a rendere la letteratura nutrimento indispensabile, e non tanto per la verisimiglianza di ciò che racconta, quanto piuttosto per la verità che sottende ogni metafora, per la plausibilità che alimenta anche la più colorata delle fantasie; non importa, insomma, che abbia poco o punto aderenza ai fatti così come li conosciamo una storia costruita attorno alla figura di uno scienziato capace di preparare una pozione il cui effetto è scomporre lo spirito dell’uomo (la sua anima, la sua psiche) nei singoli elementi che lo caratterizzano (il nobile e il sublime da una parte, l’orrido e il nefando dall’altra), se tutto questo non è che un pretesto narrativo per indagare quanto più possibile a fondo quel che ciascuno di noi è davvero. Così, è più che a buon diritto che Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, pubblicato dal grande scrittore scozzese Robert Louis Stevenson nel 1886, si è guadagnato il titolo di classico letterario; perché il suo protagonista, lo stimato e virtuoso dottor Henry Jekyll, attraverso la sua avventura d’incubo (che dell’incubo ha le atmosfere e il respiro), pone tutti noi di fronte all’abisso da noi stessi rappresentato, chiedendoci di sporgersi su di esso. Lungi infatti dall’essere una sorta di “trattato morale” sulla responsabilità delle scelte, o peggio un edificante manifesto vittoriano su vizio e virtù, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è un romanzo inquieto e disturbante che, come una luce nella notte, illumina (a tratti, certo, ma con tutta l’intensità di cui è capace) le debolezze della personalità, le linee d’ombra del carattere, lo sfuggente universo etico che abitiamo. Come ben sottolinea Riccardo Reim nell’introduzione al volume edito da Newton Compton, l’indagine di Stevenson non ha che un punto fermo, e non è quello che ci si aspetterebbe, quello cioè della profonda divisione di opposti inconciliabili tra loro, bensì il contrario, la loro indissolubilità: “Hyde non è l’opposto di Jekyll, ma qualcosa all’interno di Jekyll, qualcosa che è sempre esistito: il fatto che sia più piccolo del dottore, quasi un nano, sta a dimostrare come ne sia soltanto una parte […]. Hyde è la regressione della specie, la terribile, onnipresente minaccia che, se l’evoluzione è una scala, esiste anche la possibilità di cominciare a ridiscenderla”.

L’evocativa, angosciosa, terrificante scrittura di Stevenson rende immortale la disumanità di Hyde (la mostruosa aberrazione di Jekyll che la pozione da lui creata ha il potere di far nascere e vivere) e nello stesso tempo ne sottolinea l’umanità; non c’è nulla di mostruoso (cioè di non umano, di contrario all’umano) in Hyde, a meno che non si voglia ammettere (non si debba ammettere, dichiara a chiare lettere lo scrittore) che la mostruosità ci appartenga nello stesso modo in cui ci appartiene la non mostruosità; per questo, fin dalle prime pagine del romanzo Stevenson sceglie la tortuosa, affascinante ambiguità propria di ogni linea di confine, dove il normale, il consueto, l’ordinario riposano fianco a fianco con il diverso, con l’eccezione, con ciò che viola ogni regola: “La strada era piccola e calma, ma nei giorni feriali vi si svolgeva un gran traffico. Gli abitanti se la passavano tutti bene, sembrava, e, con la speranza di passarsela anche meglio, facevano a gara nello spendere il sovrappiù dei loro guadagni in civetterie; perciò le vetrine dei negozi erano allineate lungo la strada con aria invitante, come due ali di venditrici sorridenti. Anche di domenica, quando nascondeva le sue attrattive più ricche e rimaneva quasi vuota, la strada risplendeva, in contrasto con gli squallidi dintorni, come un fuoco nella foresta; e con le sue persiane dipinte di fresco, i suoi ottoni ben lucidati, la generale pulizia e allegria di tono, subito attirava e colpiva piacevolmente l’occhio dei passanti. A due porte dall’angolo, sul lato sinistro andando verso est, la fila delle vetrine era interrotta dall’ingresso di un cortile; e proprio in quel punto sporgeva sulla strada un sinistro fabbricato. Era alto due piani: non aveva finestre, ma solo una porta al piano più basso e una facciata cieca dal muro scolorito a quello superiore; ogni particolare denotava una sordida, prolungata trascuratezza”.

Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione, per Newton Compton Editore, è di Vieri Razzini. Prima di lasciarvi, augurandovi come sempre buona lettura, desidero dirvi che nei prossimi giorni sarò in vacanza, non mi dedicherò quindi ad aggiornare il blog. Spero vogliate continuare a seguire Il Consigliere Letterario. Non starò via molto, promesso.

L’avvocato Utterson era un uomo dall’aspetto ispido e rude, mai illuminato da un sorriso; freddo, scarno e imbarazzato nel parlare; guardingo nei setimenti; magro, lungo, polveroso, tetro, eppure in qualche modo amabile. Nelle riunioni di amici, e quando il vino era di suo gusto, gli si accendeva negli occhi qualcosa di straordinariamente umano; qualcosa che in verità non trovava mai la via della parola e si esprimeva invece non solo in quei silenziosi segni del volto, dopo una cena, ma più spesso e chiaramente negli atti della sua vita.

5 commenti su “Disumano, non antiumano”

  1. Secondo il filosofo Friedlander ogni evento è in relazione a un punto zero, un punto centrale, da cui prende inizio una differenziazione di punti opposti, che mostrano una grande affinità tra di loro. Un concetto ripreso dalla Psicoterapia della Gestalt, il cui fondatore, Fritz Perls, sosteneva che “rimanendo vigili sul punto centrale, si può acquisire un’abilità creativa di vedere entrambi le parti di un evento e completare l’altra metà incompleta. Evitando una visione unilaterale, possiamo acquisire una capacità di osservare più profondamente la struttura e il funzionamento dell’organismo” (Perls).
    Insomma, la natura umana è fatta di diverse polarità complementari, che talvolta entrano in conflitto, e quindi per tornare al punto zero, al punto di pre-differenzazione, occorre fare esperienza piena degli opposti, maturarne la consapevolezza, senza pretendere di eliminarli, per superare in questo modo l’eterno dualismo tra le polarità, realizzando entrambi i ruoli della polarità non come antagonistici ma come complementari.
    Un punto di vista un po’ taoista, se vogliamo (lo Yin e lo Yang esprimono il concetto della polarità, della natura duale dell’uomo che si integrano nel Tao, che riconosce il diritto di esistenza di entrambe), per non parlare di Jung, la cui dottrina del simbolo si fonda sull’attività dialettica di integrazione degli opposti (animus ed anima, conscio ed inconscio, luce ed ombra, etc).
    Be’, forse potevo saltare questa mia noiosa premessa e dire solamente che l’articolo mi ha fatto venire proprio voglia di rileggere dopo diversi anni Lo strano caso del dr Jekill e mr Hyde, per vedere l’impressione che mi lascia adesso che ho una ventina di anni in più, sicuro che in ogni caso la lettura sarà molto piacevole.

  2. Grazie del tuo intervento, per nulla noioso (almeno per me, che in filosofia sono laureato, pur interessandomi ad altri autori, e che del buon Jung so quello che sanno tutti, cioè nulla, o quasi); sono contento che ti sia venuta voglia di rileggere il libro. Se vorrai dirmi come l’hai trovato alla luce delle esperienze fatte, ne sarò più che contento.
    Un caro saluto
    Paolo

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