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Metastasi d’uomini e cose

Recensione de “Il figlio” di Philipp Meyer

Philipp Meyer, Il figlio, Einaudi
Philipp Meyer, Il figlio, Einaudi

L’epopea magnifica e tragica di una famiglia; la nascita di una nazione e l’annientamento di un Paese; lo sterminio di interi popoli, di civiltà antiche come la terra stessa, e l’emergere di nuove razze dominanti destinate, nell’infinito, circolare succedersi di vita e morte, a essere spazzate via e sostituite. Senza sosta e senza senso.


L’eterno ritorno del sangue, della violenza, della brutalità cieca, della logica elementare, spietata e inequivocabile, della sopraffazione; oltre un secolo e mezzo di storia che altro non è se non un intrecciarsi misero e superbo di destini personali, un pallido brillare di esistenze singole perdute nell’immensità senza tempo del mondo, nello sterminato, incomprensibile splendore del cielo stellato, nel palpitante respiro del vento, nell’argenteo gorgogliare delle acque.

La selvaggia innocenza della natura, la sua eternità fragile scossa dalla ferocia dell’uomo, dalla sua sete inestinguibile di possesso, dalla sua volontà di distruzione; e la sua bellezza invincibile indifferente a ogni sfregio, a ogni insulto, il suo sovrumano, intoccabile, splendore, la sua scintilla divina che giorno dopo giorno sorprende gli occhi degli uomini come un dono inaspettato: “[…] un canyon cieco […] fluttuava […] per miglia sopra di noi, come se una catena montuosa fosse stata intagliata nella terra; c’era un lungo fiume splendente e mandrie di cervi […]. Era un vero canyon scolpito nella terra, ma riflesso da un miraggio nel cielo. Ed era ancora più grande di quanto apparisse nel miraggio: largo una decina di miglia e alto tremila metri, con muraglioni svettanti e torri e piramidi di roccia simili a punti d’osservazione, mesas e collinette isolate, sorgenti scintillanti che scorrevano fra la pietra rossa. C’erano pioppi e bagolari, e il fondovalle era ammantato di fiori selvatici […]. Al tramonto le pareti del canyon parevano incendiate, e in quella luce le nuvole in arrivo dalla prateria sembrano fumo, come se il Creatore stesse ancora forgiando la terra nella sua fucina”.

Si getta a precipizio fin dentro il cuore di un’età che ancora serba memoria dell’alba dell’uomo nel mondo, dei suoi passi terrorizzati e perduti tra immense distese d’erba e luce, e bruscamente se ne allontana (dimenticandola come ci si dimentica di tutto ciò che muore) per correre incontro a un presente d’incubo, ripugnante metastasi d’uomini e cose pazientemente creata, anno dopo anno, nel “laboratorio della civiltà”, lo splendido e travolgente romanzo Il figlio, opera seconda del giovane scrittore americano Philipp Meyer; nel canto dissonante delle voci di tre persone appartenenti alla stessa famiglia eppure così diverse tra loro da essere luna la nemesi dellaltra – il capostipite Eli, rapito bambino dai Comanche, con i quali rimane per tre anni finendo per amarli più di se stesso, tanto in gamba nel comprendere la terra e nell’accettarne le sue leggi, la sua giustizia netta e implacabile, quanto incapace di essere con e per gli altri, pur provando verso di loro un affetto profondissimo; il figlio Peter, fedele alla propria capacità di provare pietà fino al punto da non vederla sconfinare nella debolezza, da non vergognarsi di quella nobiltà pagata dall’assenza di scrupoli degli altri, a cominciare dal padre; e infine la pronipote Jeanne, erede risoluta e infelice di un impero nato dalla terra, dai pascoli e dal bestiame e poi cresciuto a dismisura grazie al petrolio – Meyer racconta l’America e nel farlo la scopre una seconda volta.

La sua scrittura fiammeggiante, eroica e sordida, battezzata nella meraviglia e nell’atrocità, ha la lealtà di una promessa e la dolorosa sincerità di una confessione. Ai suoi personaggi l’autore regala laceranti dilemmi senza risposta, ne descrive dubbi, rimorsi, fuggevoli istanti di gioia e quiete, dà forma e sostanza a Erinni urlanti di ricordi, che sacrificano al tormento ogni istante di vita, finché il dolore chiuso in quelle anime, come un fiume non più trattenuto dagli argini, arriva a bagnare di sangue e lacrime ogni angolo di quel mondo scomparso nel sangue e riforgiato nelle logiche di sterminio della ricchezza e della povertà, finché l’amore di Eli per i suoi fratelli indiani prima e per la moglie e i figli bianchi poi non si unisce alla morte subita e inflitta in quel cerchio perfetto di torti e ragioni, di prevaricazione e misericordia che tutti gli uomini ereditano semplicemente nascendo, finché Peter con il suo cuore colmo d’amore non giunge a covare pensieri di morte e Jeanne si trova costretta ad ammettere che tutto il suo bisogno d’amore, per quanto appagato, non serve a darle quel che davvero desidera: il rispetto di sé. Mentre il tempo, che tutto conosce degli uomini, silenzioso compie la sua opera, che forse è giustizia, forse vendetta.

Il figlio è un romanzo di rara bellezza, è un’odissea che profuma d’epica senza nulla concedere al mito, è polvere, sudore, ferite e piaghe; è lacrime, e corpi allacciati nell’amore e nella battaglia; è un viaggio, coraggioso e indimenticabile, verso la verità.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Cristiana Mennella. Buona lettura.

Mi hanno profetizzato che sarei vissuto fino a cent’anni e siccome li ho compiuti non vedo perché dovrei dubitarne. Non morirò da cristiano, ma il mio scalpo è intatto e se esiste un terreno di caccia eterno, lì sono diretto. Oppure allo Stige. Al momento credo che la mia vita sia stata fin troppo breve: quanto bene potrei fare se mi fosse concesso un altro anno in piedi. Invece sono inchiodato a questo letto, a farmela addosso come un poppante. Se il Creatore riterrà di darmi la forza mi incamminerò verso il fiume che attraversa il pascolo. L’ansa orientale del Nueces. Ho sempre preferito il Fiume del Diavolo. Nei miei sogni l’ho raggiunto per tre volte, ed è noto che nella sua ultima notte di vita mortale Alessandro Magno sgusciò fuori dal palazzo e cercò di calarsi nell’Eufrate, sapendo che se il suo corpo fosse scomparso, il popolo lo avrebbe creduto asceso al cielo come un dio. La moglie lo fermò sulla riva. Lo trascinò a casa perché morisse da semplice uomo. E poi mi chiedono perché non mi sono risposato.

8 commenti su “Metastasi d’uomini e cose”

  1. L’ho letto qualche mese va. Un romanzo di ampio respiro. Quello che mi aveva colpito era la solitudine dei tre protagonisti. Ognuno a suo modo, un pesce fuori d’acqua rispetto al mondo che li circonda.

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