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Il mondo attraverso un uomo

Recensione di “Le avventure di Gordon Pym” di Edgar Allan Poe

Edgar Allan Poe, Le avventure di Gordon Pym, Newton Compton
Edgar Allan Poe, Le avventure di Gordon Pym, Newton Compton

Un romanzo d’avventura venato di mistero e d’orrore. Una storia di formazione che poco alla volta, inesorabilmente, si colora d’incubo, si fa tragedia, e sprofonda cupa in quell’indicibile perversione della realtà cui diamo il nome di soprannaturale. Un diario di viaggio, un racconto di mare, un travolgente mutar di prospettive che serra la luminosa immensità dell’orizzonte nell’angusta penombra del rifugio di un clandestino.

Il mondo capovolto disegnato da Edgar Allan Poe ne Le avventure di Gordon Pym, l’opera di maggior ampiezza della sua produzione, è un crescente respiro d’angoscia, un magistrale sovvertimento dei canoni letterari, un tumultuare di avvenimenti inaspettati e tragici che trasforma l’epica eroica (e a tratti scanzonata) dell’esplorazione, della corsa verso l’ignoto, in un gorgo d’inquietudine e di smarrimento personale. Nel narrare l’odissea del giovane Arthur Gordon Pym, che per pura fame d’emozioni si imbarca clandestinamente a bordo del brigantino Grampus, agli ordini del capitano Barnard, un caro amico del padre del ragazzo, lo scrittore americano conduce il lettore lungo sentieri poco battuti, senza mai offrire punti di riferimento ma anzi confondendo di continuo le tracce.

Proprio come l’orizzonte verso il quale i personaggi del suo lavoro si dirigono senza mai raggiungerlo (ma soprattutto senza mai comprenderlo, e che ovunque incombe come una presenza maligna, come una terribile maledizione sul punto di essere scagliata), le feroci, implacabili pagine del Gordon Pym ignorano ogni canone consueto; lo splendore delle albe e dei tramonti, l’immensità dell’oceano, tutto ciò che dovrebbe far da sfondo (e in qualche misura anche da filo conduttore) a quanto viene svelato è quasi immediatamente spazzato via; la misura della parola, il suo spazio vitale, non è più la natura bellissima e spietata, ma la condizione del singolo prigioniero nello spazio finito di una nave circondata da qualcosa che somiglia al nulla (e all’interno della nave nel soffocante perimetro di un nascondiglio in tutto simile a una tana); ed è a questo punto che il vero viaggio – che è della mente prima che del corpo, e della volontà, dell’umanità presa d’assalto dalla follia, dell’imperio della sopravvivenza che si fa sanguinario delirio di vita – ha inizio.

Così le avventure del titolo diventano il drammatico vissuto del protagonista, di Arthur Gordon Pym, e attraverso lui vivono, divengono reali. Dapprima l’ammutinamento della nave che ospita Gordon, poi, a rivolta sedata (non senza gran spargimento di sangue), l’arrivo di una tempesta, che danneggia irreparabilmente la nave, e il conseguente naufragio. Colma di terrore e di disperazione, tagliente, talmente evocativa e ricca di suggestioni da lasciare senza fiato, la prosa di Poe, che ogni cosa registra attraverso gli occhi e il cuore palpitante del suo primo attore, conduce il lettore fino in fondo all’abisso che dimora in ogni persona: la speranza degli uomini alla deriva, privi di cibo e acqua e prossimi alla morte per consunzione, risvegliata dall’arrivo di una nave, si muta in atroce scoramento alla scoperta della morte dell’intero equipaggio, ma la discesa agli inferi di quel manipolo di derelitti è lungi dall’essere conclusa; le condizioni estreme in cui si trovano, infatti, li costringono al cannibalismo.

In un ultimo barlume di umana pietà che l’autore descrive con indimenticabili accenti di cruda amarezza, il nome di colui che sarà sacrificato affinché gli altri possano avere ancora una speranza di vita viene estratto a sorte, poi c’è spazio solo per l’esecuzione della sentenza. E ancora una volta, quando anche l’ultimo confine è superato e sembra ormai impossibile tornare indietro, Poe spariglia le carte, e per un momento Le avventure di Gordon Pym torna a vestire gli abiti classici del romanzo d’avventura. Un’altra nave giunge a salvare i sopravvissuti, ed ecco che subito tutto torna a confondersi. La rotta seguita porta a una terra sconosciuta, abitata da selvaggi che non esitano ad attaccare i nuovi arrivati; l’azione, trascinante, è però sempre mediata dai pensieri e dalle scelte di Gordon, dal suo interiore tormento, che in parte è specchio di quel che gli succede e in parte rivela l’essenziale indecifrabilità dell’uomo. Nella trasparente allegoria di terra, acqua e cielo, custodi immortali di innominabili segreti, Poe dunque racconta e rivela un essere umano e l’umanità tutta, i suoi dilemmi, il bisogno di certezze che contribuisce a renderlo la più debole tra le creature, e il suo universo etico, così definito e allo stesso tempo così precario e impalpabile, come l’ultima sottile lama di luce che si arrende all’incedere della sera.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Newton Compton, è di Enzo Giachino. Buona lettura e buon Ferragosto a tutti.

Mi chiamo Arthur Gordon Pym. Mio padre era un rispettabile commerciante in articoli marittimi a Nantucket, dove io nacqui. Il mio nonno materno faceva il notaio e aveva una buona clientela. Fortunato in tutto, aveva speculato con profitto sui fondi di quella che era un tempo chiamata la Edgarton New Bank. Con questi e altri mezzi era riuscito a metter da parte un discreto capitale. Era attaccato a me, credo, più che a qualsiasi altra persona al mondo, tanto che tutto faceva pensare che alla sua morte io avrei ereditato buona parte della sua sostanza.

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