Recensione di “Papà Goriot” di Honoré de Balzac
È vizio l’eccesso di qualsivoglia virtù, ed è in qualche misura colpevole ogni anima che non abbia saputo educarsi alla moderazione, che non sia stata in grado di concepire limiti, che si sia consumata nella propria generosità, nell’affanno di un amore sovrabbondante e incontrollato. Questo l’universale metro di giudizio etico su cui si fonda Papà Goriot, uno dei romanzi più noti e amati di Honoré de Balzac.
Pubblicata nel 1834, questa raffinata opera letteraria, oltre a farsi apprezzare per il crudo ritratto di una borghesia al tramonto e per la costruzione quasi perfetta dei profili psicologici dei protagonisti (quasi tutti accomunati da una pesante ombra di meschinità, da una miope e calcolata falsità, da un abito di untuoso opportunismo), colpisce per la forza e la radicalità della sua riflessione morale. La semplicità del racconto, che vede un padre, un tempo ricco, ridotto in miseria per amore delle figlie, sposate a nobili privi di scrupoli e attenti soltanto al rispetto delle convenzioni della buona società di cui fanno parte, è inversamente proporzionale al tema trattato, al lucido argomentare dell’autore, che non teme di mettere sotto accusa i sentimenti; nel disegnare la figura vinta e patetica di Goriot, nel raccontarne le vicissitudini, i penosi sacrifici cui si sottopone e le umiliazioni che riceve in cambio, nel dolente soffermarsi della scrittura sulla freddezza che le figlie riservano al loro genitore, Balzac condanna senza mezzi termini il totale annullamento di sé a favore di un altro.
Insensibile alle critiche e al disprezzo che gli ospiti della modestissima pensione nella quale ha trovato ricovero (e dove intende trascorrere gli anni che ancora gli rimangono da vivere) gli rovesciano addosso quotidianamente, l’anziano Goriot descritto da Balzac non merita quasi di esser chiamato uomo; egli non si cura, è vero, del giudizio del mondo (e il mondo che lo circonda, va detto, ha ben poco diritto di giudicare chicchessia, e proprio per questo probabilmente non riesce ad astenersi dal farlo), ma soltanto perché la sola cosa che davvero gli importa è quel che di lui pensano le sue figlie, è da loro, o meglio dalla loro felicità, dal loro appagamento, per raggiungere il quale nessun prezzo è troppo alto da pagare, che egli dipende. L’amore incondizionato di cui Goriot si nutre (arrivando perfino a rinunciare al cibo, e a convincersi di poterlo sostituire con il balsamo spirituale della pietà e della riconoscenza), lungi dall’essere la sua più nobile qualità, è il veleno che lentamente lo uccide: la devozione ingenua, l’innocenza di un vecchio padre che da uomo d’affari non ha mai tenuto in gran conto i buoni sentimenti ed è stato risoluto e spietato nell’arricchirsi, non sono che fardelli, debolezze, difetti del carattere, e non a caso l’autore così li rappresenta negli altri personaggi centrali del suo romanzo; da un lato il giovane studente Rastignac, sedotto dalla nobiltà e dalla ricchezza che sempre dovrebbe accompagnarla (almeno nelle colorate fantasie di chi ha appena cominciato ad affacciarsi alla vita), che si commuove per la sorte del povero Goriot e nel medesimo tempo si incapriccia di una delle sue figlie, e che è tutto fuorché saldo nelle sue decisioni, dall’altro il cinico Vautrin (sulla cui identità l’autore ha in serbo una sorpresa), che proprio con Rastignac discute a più riprese di amore e dedizione smascherando l’egoismo che spesso è il primo e principale motore di questi palpiti del cuore.
Vautrin, per il quale i più sacri rapporti umani non sono che un gioco di scacchi da condurre con abilità e glaciale distacco, è agli occhi di Balzac un personaggio negativo uguale e contrario al vecchio Goriot e al fragile Rastignac; la disumanità del primo, infatti, non è sostanzialmente differente da quella dei secondi, poiché se l’uno volta consapevolmente le spalle alla compassione per poter sfruttare fino in fondo e con qualsiasi mezzo ogni possibile opportunità offertagli dalle circostanze, gli altri, fedeli al proprio cuore fino al punto da divenirne schiavi finiscono per sfarinarsi in ombre d’esistenza, in impalpabili spettri colmi di buone intenzioni il cui alito vitale è interamente demandato all’elemosina di uno sguardo, di una parola altrui.
Romanzo di crudele sincerità, Papà Goriot non va tuttavia rubricato con troppa semplicità come la compiaciuta confessione di uno spirito libero e orgoglioso; in molte delle pagine del romanzo brilla un umanesimo delicato e commosso che lo scrittore francese non manca di considerare con il rispetto che gli è dovuto. Ma proprio in virtù di questo rispetto, che è in primo luogo aristotelico rispetto della verità, Balzac non ne canta sterili lodi; si assume invece l’onere di un giudizio, e risoluto ci invita al confronto.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Mondadori, è di Giuseppe Pallavicini Caffarelli. Buona lettura.
La signora Vauquer, nata de Conflans, è una donna anziana che da quarant’anni tiene a Parigi una pensione familiare situata in rue Neuve-Sainte-Geneviève, tra il quartiere latino e il faubourg Saint-Marceau. La pensione, nota come Casa Vauquer, accetta sia uomini che donne, giovani e vecchi, senza che i costumi di questa rispettabile istituzione abbiano mai prestato il fianco alla maldicenza.
Ciao Paolo, hai reso un eloquente quadro di questo romanzo, anche per chi come me non l’ha letto e probabilmente non leggerò mai……… mai dire mai ….
alla prossima
Ciao Nino, e come di consueto grazie delle tue incoraggianti parole.