Recensione di “Bambini nel tempo” di Ian McEwan
Come assenza, mancanza, sottrazione (di punti di riferimento, approdi, soluzioni, vie di fuga), privazione, così si manifesta il dolore. Rendendosi percepibile ma non intelligibile, ferendo, annientando senza mai lasciarsi afferrare, senza mai farsi cogliere, farsi comprendere. Nel vuoto di senso il dolore nasce e cresce, e si radica in una distorsione di significato talmente potente da cancellare nell’uomo la certezza di occupare un preciso posto nel mondo, di avere un compito da assolvere, un fine cui tendere.
E in un deserto d’amore e di vita, in un appassire di speranze e desideri si trasforma la felice esistenza di un padre – Stephen Lewis, autore di successo di libri per ragazzi – che un giorno all’apparenza uguale a tutti gli altri perde, al supermercato, la figlia di tre anni. Scomparsa nel nulla, in un attimo. È dunque il dolore, inteso come radicale frattura del sé, il tema che Ian McEwan affronta nell’intenso romanzo Bambini nel tempo; nel raccontare, con accenti partecipati ma anche in buona misura attenti, misurati, stilisticamente preziosi eppure non privi di un certo stucchevole manierismo e caratterizzati da una sorveglianza eccessiva alla bellezza della forma, la storia sconvolgente di una scomparsa, la tragedia di un bambino perduto (che fine ha fatto la piccola? Come ha potuto sparire in quel modo, dissolversi quasi? È stata rapita? Si è allontanata per gioco, oppure senza rendersene neppure conto, e il suo gesto ha avuto conseguenze inimmaginabili? Che cosa è successo davvero?), egli trascina il lettore in una dimensione particolarissima, unica, nella quale la realtà quotidiana si fonde con la scienza, la teoria pura, la filosofia.
La concretezza della sofferenza patita da Stephen (il progressivo sfaldarsi della sua vita, la deriva del matrimonio, il processo di abbruttimento personale, che pare inarrestabile), pur restando il centro di gravità del romanzo, in qualche misura scolora, impallidisce, si stempera in altri distinti rivoli narrativi: nella riflessione sull’illusorietà del tempo continuo e lineare (del suo incessante fluire dal passato al presente che tutti percepiamo), nella severa e perfida – per quanto volutamente superficiale – analisi politico-sociale (l’autore descrive un’Inghilterra di fantasia prossima all’implosione, incapace di affrontare i numerosi problemi da cui è afflitta e dove l’accattonaggio, regolamentato dallo Stato con tanto di permessi scritti e regole di comportamento stabilite, è la più cruda rappresentazione del fallimento del disegno politico conservatore), nell’amara satira del sapere pedagogico, delle facili soluzioni per la crescita sana e corretta dei figli, delle ricette definitive, delle soluzioni geniali e buone per tutte le stagioni (Stephen, proprio in qualità di scrittore per l’infanzia e in virtù di un’amicizia significativa, viene chiamato a far parte di una sottocommissione incaricata di redigere un documento sulle migliori strategie da adottare nell’educazione dei più piccoli), e non ultimo nello sguardo commosso e impotente gettato sul quel mistero inevitabile e irrisolvibile rappresentato dal rapporto tra genitori e figli (che McEwan prima disegna con delicata acutezza nelle parentesi d’incontro tra Stephen e i suoi e poi rappresenta in un’esperienza personale del protagonista che sta a metà tra l’allucinazione e il cortocircuito spazio-temporale).
Il risultato di questo studiato sbilanciamento, di questa elaborata mancanza di equilibrio, è un romanzo che sembra irraggiungibile, incolmabile; un’opera che si specchia nella sua preziosa eleganza formale, nella musicale rotondità delle frasi e un momento più tardi incalza se stessa e si mette alla prova cercando di raggiungere le verità ultime, e di nuovo cambia pelle sfiorando le nostre debolezze, partecipando delle nostre fragilità, condividendo i nostri sogni più segreti, i nostri più intimi pensieri. Non sorprende perciò (e tantomeno delude) che nel finale della storia, ansioso di ricomporre la frattura originata dall’inspiegabile sparizione di una bambina innocente, McEwan scelga la strada più semplice, la soluzione più ovvia (la riconciliazione tra Stephen e la moglie e l’inizio di una “seconda vita” su basi rinnovate), perché questo artificio, lungi dall’essere un difetto del romanzo o una sua imperfezione, sottolinea una volta di più il carattere di assoluta originalità di Bambini nel tempo, il suo essere un crocevia di eventi, un fiorire di possibilità, un ramificarsi di misteri nel cui grembo nasciamo e moriamo, un deflagrare di malinconia e morte e un purissimo scintillare d’amore.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Susanna Basso. Buona lettura.
Da tempo ormai, tanto il governo quanto la maggioranza dei cittadini associavano mentalmente le sovvenzioni ai trasporti pubblici con la negazione della libertà individuale. I vari servizi subivano due regolari collassi giornalieri nelle ore di punta ed era opinione di Stephen che si impiegasse meno tempo a raggiungere Whitehall a piedi che prendendo un taxi. Era fine maggio, da poco passate le nove e mezza e la temperatura sfiorava già i 25°.
ciao, super come sempre, soprattutto la parte iniziale é da grande scrittore, ciao alla prossima
Grazie Nino, troppo buono come sempre. Peccato tu non faccia l’editore…
hahahahahaha