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Il giorno di Leopold

Recensione di “Ulisse” di James Joyce

James Joyce, Ulisse, Mondadori
James Joyce, Ulisse, Mondadori

Il particolare e l’universale, il linguaggio e lo stile, il significato e il simbolo. E il tempo, che è insieme il semplice trascorrere delle ore e la sincronia di eventi diversi, e i richiami all’attualità e alla storia, e il loro mescolarsi alle ossessioni personali, ai traumi, ai pensieri e ai sogni, alle convinzioni, alla letteratura e alla poesia, alle invettive e ai rimorsi, e il loro annegare nel furore delle fedi contrapposte, nel cristiano e nell’ebreo, in quel Dio fatto uomo che non è tutti gli uomini.


E l’epica messa in burla, ridotta a squallida parodia; alterchi verbali le battaglie, rari soprassalti di dignità gli eroismi, straripante, volgare fisicità la bellezza dei corpi, calcolo d’interesse l’ingegno, nostalgia, tradimento e prostituzione l’amore, caducità, debolezza fin troppo umana la morte. Così è il 16 giugno 1904, la giornata raccontata da James Joyce in Ulisse, riconosciuto capolavoro dello scrittore irlandese nonché opera tra le più significative dell’intera storia della letteratura: un enciclopedico labirinto, un immenso, impetuoso fiume di riflessioni, suggestioni, provocazioni, artifici e invenzioni sulla cui superficie danza, fragile e insistente, l’increspatura di un’umanità moribonda e dispersa aggrappata a simulacri di pietà e misericordia.

Nelle strade di Dublino instancabilmente percorse da Leopold Bloom (il protagonista del romanzo di Joyce, un mite uomo di mezza età che si guadagna da vivere come procacciatore di inserzioni pubblicitarie per un giornale), nel parallelismo tra il suo inquieto e a tratti squallido vagabondare e le peregrinazioni dell’eroe omerico, nella fatica del ritorno alla sua casa e ai suoi affetti prende forma la vicenda tragica di una ricerca e di un abbandono, di un desiderio sfiorato che appassisce in un lutto. Risuona, nel contrasto stridente tra la semplicità estrema della trama del romanzo (un giorno qualsiasi di un uomo come tanti, a Dublino, dalle 8 del mattino alle 2 di notte, e un carosello di figure di contorno ad animare le sue ore) e il suo dipanarsi – dilatato in un migliaio di pagine di ininterrotte, sorprendenti, rivoluzionarie soluzioni stilistico-formali, di tecniche narrative sempre diverse, che di volta in volta si ispirano a canoni consolidati, se ne prendono gioco, ne saggiano i limiti espressivi , li reinventano, li vestono d’eccessi grotteschi, li caricano di simboli, di rimandi, e ancora di acrobazie sintattiche, di virtuosismi espressivi talmente vertiginosi e assoluti da riuscire a dar vita a nuove parole, a nuovi concetti, a intere grammatiche avviluppate come viti intorno al tralcio di un’onomatopea, dell’intensità di un colore, della fuggevole anarchia di un pensiero – l’eco patetica e commossa di una relazione mancata.

La famiglia cui Ulisse cerca con tutte le sue forze di tornare si riflette distorta e spezzata nell’odissea di Leopold Bloom, nel medesimo tempo comica e amara; nel ricordo pungente dell’amore ormai finito per la moglie Molly (Penelope), che proprio nel corso di questo giorno lo tradirà, nel dolore accecante per il proprio piccolo, perso anni addietro dopo solo undici giorni di vita, nel suo bisogno, nella sua sete d’essere padre, che lo porta ad avvicinarsi all’altro protagonista del romanzo, Stephen Dedalus (Telemaco), giovane intellettuale che l’autore presenta come fosse un orfano (con la madre “bestialmente morta” e un padre vivo e vegeto ma profondamente detestato) e che la sollecitudine di Bloom accarezza solamente prima che quel ragazzo, così diverso da lui, così lontano e inafferrabile, fugga lontano, nello sterile corto circuito della sua mente, nel suo sguardo silenzioso e impotente sul mondo.

L’indistinto brulicare di vita di Dublino, il suo inintelligibile sovrapporsi di voci, sono il contraltare della muta sconfitta di Leopold Bloom nello stesso modo in cui l’architettura volutamente elementare (intendendo con questo termine ciò che viene ridotto all’essenziale, una sorta dunque di rasoio di Occam della materia del racconto) della storia contenuta in Ulisse lo è dello splendido e complesso mosaico della sua articolazione. L’una cosa è l’opposto dell’altra e insieme la sua spiegazione, la sua conclusione, il suo aristotelico passaggio dalla potenza all’atto; il naufragio di un giorno è la compiuta manifestazione della desolazione di una vita intera, una vita che ha in sé, come la giornata che la simboleggia, amore e morte, speranza e delusione, generosità e grettezza, rabbia e perdono, Dio e demonio. In un’ubriacante (ed estenuante, e anche per questa ragione inebriante) fluidità di linguaggio che è forse l’unica possibile traduzione della sostanziale ingovernabilità dell’essere e della vita, Joyce ci consegna un mondo intero, studiato in lunghi periodi di veglia e contemplato nella sfrenata libertà del sogno.

Prima di salutarvi, lasciandovi come sempre all’incipit del romanzo (traduzione, per Mondadori, di Giulio De Angelis), mi permetto di consigliarvi anche la lettura di James Joyce di Stefano Manferlotti (edizioni Rubbettino) agile ed esaustiva introduzione al grande scrittore irlandese, alla sua epoca e ai suoi lavori. Buona lettura.

Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli era sorretta delicatamente sul dietro dalla mite aria mattutina.

7 commenti su “Il giorno di Leopold”

  1. lascio a metà.
    ho letto in maniera frenetica, velocissima , solo così riuscivo a capire il senso ma poi ho detto basta chissenefrega della giornata di leopold.
    lo riprenderò nella mia vecchiaia.
    ciao e complimenti ancora per il blog.

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