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Una tenace resistenza

Recensione di “Il mastino dei Baskerville” di Arthur Conan Doyle

Arthur Conan Doyle, Il mastino dei Baskerville, Newton Compton
Arthur Conan Doyle, Il mastino dei Baskerville, Newton Compton

“Arthur Conan Doyle sapeva come «fare paura» scrivendo. Lo aveva dimostrato nei suoi racconti del terrore, e con lo stesso stile si dedicò a Sherlock Holmes, per creare tensione, ansia, angoscia. Il mastino dei Baskerville, del resto, è «anche» un romanzo dell’orrore. Forse la modernità del Mastino, che ha permesso a questo libro di mantenere intatta la sua carica e la sua capacità di suscitare brividi, sta proprio nell’essere situato in un’interzona tra reale e fantastico […].


Quasi tutto il romanzo si dipana in un’atmosfera di cupo terrore, con l’impressione costante di avere a che fare con una maledizione ancestrale e con un pericolo inspiegabile annidato nel buio della brughiera. Invece, alla fine, siamo riportati alla realtà concreta. Una rivelazione attesa, perché sappiamo che Holmes non può accettare l’incredibile, deve a tutti i costi spiegare razionalmente i crimini con cui si confronta. Ma la forza del romanzo sta soprattutto in quell’atmosfera sospesa tra superstizione estrema e realismo: si resta affascinati dalla storia dei Baskerville proprio perché non si conosce la vera dimensione in cui si svolgono quelle morti, e si palpita per il sospetto che davvero, dalle paludi della Gran Bretagna, possa all’improvviso apparire un mostro a quattro zampe, con le fauci pronte a mordere e intento a lanciare ululati spaventosi”.

Come ben spiega Fabio Giovannini nell’introduzione all’edizione de Il mastino dei Baskerville pubblicata da Newton Compton, è nella scommessa dell’ignoto, nel piano inclinato di una narrazione allo stesso tempo serrata e sfuggente, umbratile, che, come per un cortocircuito, si avviluppa mentre si dipana e finisce per essere d’inciampo a qualsiasi tentativo d’analisi, di ricostruzione, d’indagine conoscitiva e d’ipotesi esplicativa, che ha il suo maggior punto di forza la più celebre e amata avventura di Sherlock Holmes. Tra le pagine de Il mastino dei Baskerville, evocative, palpitanti, dense di suggestioni; nel fiammeggiante racconto di maledizioni senza fine che tormentano e dilaniano intere generazioni, l’infallibile detective privato di Baker Street si muove con evidente difficoltà, stretto nella fatica di una solitudine soltanto in parte figlia della sua eccezionalità, delle sue straordinarie doti deduttive; e così, per la prima volta, in modo impercettibile ma sostanziale, la sua figura cambia. Benché infatti anche questo romanzo, nel solco della tradizione “letterario-investigativa” delle opere precedenti, si apra con un esempio (che l’autore non a caso espone in tono semiserio) delle abilità investigative di Sherlock Holmes, l’intreccio si complica immediatamente, inoltrandosi in labirinti d’orrore e morte che sfiorano l’assurdo; in questo scenario completamente nuovo, l’unicità di Holmes ammirata tanto dai suoi compagni quanto dai suoi avversari, e da lui rivendicata con orgoglio, quella particolarissima capacità di leggere la verità in ogni più piccolo indizio, quella sovrabbondante intelligenza di uomini e cose, cessa di essere un macroscopico tratto di distintivo personale per trasformarsi in null’altro che in una luce tra le tante.

Al pari dei suoi compagni, infatti, ne Il mastino dei Baskerville Sherlock Holmes incarna la resistenza (tenace ma flebile, almeno fino allo scioglimento finale della vicenda) della ragione al prepotente avanzare delle tenebre dell’irrazionalità – “fino a oggi”, dichiara a un certo punto Holmes, quasi a voler scongiurare il verificarsi di fatti inspiegabili cui non crede ma che pure, come spettri, sembrano circondarlo, stringerlo d’assedio, “ho limitato le mie indagini a questo mondo […]. Nel mio piccolo, ho combattuto il male, ma affrontare addirittura il Signore del Male in persona sarebbe forse un compito troppo ambizioso” – e Conan Doyle ne racconta la battaglia con impareggiabile maestria stilistica; egli ci mostra frammenti di un Holmes inedito mentre lo dipinge secondo schemi consueti, cari ai lettori (e mai come in questo frangente rassicuranti); nei serrati scambi di opinione con l’inseparabile amico Watson, nell’arrogante sicurezza del suo sentenziare, nel dotto e compiaciuto riepilogare, a beneficio del pubblico del momento, i diversi momenti del suo percorso deduttivo, e nel far questo insieme al suo eroe ci offre un indimenticabile contesto da romanzo gotico: lo sconfinato silenzio della brughiera inglese, riflesso d’inferno, ciglio di un vertiginoso baratro dove anche la più solida delle volontà vacilla.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Newton Compton, è di Nicoletta Rosati Bizzotto. Buona lettura.

Sherlock Holmes, che generalmente scendeva molto tardi al mattino tranne che nelle non rare occasioni quando rimaneva alzato tutta la notte, era già seduto al tavolo della colazione. Mi fermai sul tappeto accanto al caminetto a raccogliere il bastone dimenticato la sera prima dal nostro visitatore. Era un bel bastone col pomo rotondo, del tipo comunemente chiamato «Malacca». Proprio sotto l’impugnatura c’era una larga fascia d’argento con l’iscrizione «A James Mortimer M.R.C.S. dai suoi amici del C.C.H.» e la data «1884». Era proprio il tipo di bastone adatto a un medico di famiglia vecchio stampo – dignitoso, solido, e rassicurante.

3 commenti su “Una tenace resistenza”

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