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Ikuogiona e la voce di Dio

Recensione di “Il salto mortale” di Oe Kenzaburo

Oe Kenzaburo, Il salto mortale, Garzanti
Oe Kenzaburo, Il salto mortale, Garzanti

Tokyo, 20 marzo 1995. Alcuni membri della setta religiosa Aum Shinrikyo, fondata otto anni prima da Shoko Asahara, disperdono nei sotterranei della rete metropolitana cittadina un gas nervino letale, il sarin. Il loro gesto ha tragiche conseguenze: dodici persone innocenti muoiono e altre seimila rimangono intossicate.

Prende le mosse da questo sconvolgente caso di cronaca Il salto mortale di Oe Kenzaburo (il primo romanzo del grande autore giapponese successivo al conferimento del Premio Nobel per la Letteratura nel 1994), ma fin dal principio se ne allontana, relegando i fatti, la realtà, a indistinto sfondo di una vicenda costruita come un serrato confronto dialettico sul rapporto tra il divino e l’umano, sul senso e l’importanza della fede, sulla vita, la morte, l’amore, la libertà e il coraggio di sceglierla. L’ombra del fanatismo e del delirio di onnipotenza e distruzione (due facce di un’identica medaglia) che porta con sé, la costernazione e il dolore di un intero Paese, messo in ginocchio dalla follia di Asahara e dei suoi seguaci, attraversano la prosa quieta e lenta di Oe, satura di dettagli nelle descrizioni d’ambiente, attenta a ogni più piccola sfumatura nel disegno dei corpi, dei volti, e torrenziale e instancabile nei dialoghi diretti (vera e propria spina dorsale del romanzo), come una cicatrice, come un ricordo impossibile da eliminare, come un sordo rimorso di coscienza. Lo sguardo di Oe Kenzaburo, allo stesso tempo carico di ironia e disperazione, emerge nitido dalla sua scrittura orfana di consolazione e verità e si specchia nella contraddittorietà dei personaggi cui dà vita, tutti colti in un momento di transizione, congelati in una dimensione di incompletezza, di parzialità, di colpevole imperfezione che si fa simbolo della fragile condizione esistenziale del nostro tempo. L’intreccio stesso del romanzo è una congiunzione di opposti, un sovrapporsi di differenze, un delirante incrociarsi di distinzioni che altro non rappresentano se non la natura invincibile del caos all’interno del quale ci sforziamo di vivere: un movimento religioso (assai simile all’Aum Shinrikyo) che predica l’imminente fine del mondo e si pone come scopo la promozione del pentimento di massa, viene improvvisamente abbandonato dai due fondatori (conosciuti con gli appellativi-simbolo di Maestro e Guida), che un giorno decidono di rinnegare il loro operato definendolo nient’altro che un’impostura. Questo clamoroso gesto (il “salto mortale” del titolo), resosi necessario, secondo i due leader, per evitare che l’ala più radicale e intransigente della loro “chiesa” provasse ad accelerare l’ora della distruzione di ogni cosa compiendo una serie di gravissimi attentati terroristici (che comprendevano anche l’attacco ad alcune centrali nucleari), è il passo d’avvio di una tormentata ricerca della verità da parte di alcune persone – Kizu, un anziano pittore malato di cancro; Ikuo, un ragazzo di cui l’artista si innamora, ossessionato dalla “voce di Dio” udita in giovanissima età e mai più ritrovata; Ballerina, una fanciulla, che, conquistata dalla personalità e dagli insegnamenti di Maestro, rinuncia alla danza, la più grande passione della sua vita; Ogi, un altro ragazzo, talmente inesperto della vita da venir soprannominato Gioventù Innocente – attratte dalla setta e dalla figura del suo fondatore.

Oe, finissimo conoscitore della cultura occidentale, guida il lettore in questo viaggio nella spiritualità (o meglio, nell’ansia, nel bisogno di spiritualità, di trascendenza, che è in ognuno di noi) offrendo, come possibile antidoto ai suoi dubbi, al beffardo cinismo di cui veste la sua incredulità, al baratro spalancato dai suoi spietati giudizi sulla contemporaneità – “Dopo Chernobyl, il governo e le varie compagnie elettriche hanno dichiarato che qui da noi incidenti nucleari di simile portata non si potranno mai verificare […]. L’opinione pubblica ha reagito con grande sollievo […]. Del resto noi giapponesi ci fidiamo ciecamente dei mezzi di informazione e della tecnologia che il sistema controlla – Dante e la sua poetica odissea, le liriche di R.S. Thomas, poeta gallese ed ecclesiastico della Chiesa Anglicana, le riflessioni di Kierkegaard, filosofo e uomo di Dio, linfiammato fervore religioso di Dostoevskij (a più riprese è citato uno dei suoi massimi capolavori, I fratelli Karamazov), i Vangeli e la Bibbia, e in particolar modo il Libro di Giona, che per Ikuo (a un certo punto della narrazione soprannominato Ikuogiona) è la rappresentazione ideale del suo rapporto interrotto con il Signore e del suo intenso desiderio di riallacciarsi a lui, anche per ribellarsi alla sua volontà e ai suoi decreti, proprio come fece il Giona biblico. In questo labirinto di domande senza risposta, in questo palpitare di pensieri e nel loro definitivo spegnersi nel pallido sincretismo religioso dei sermoni di Maestro (che a dieci anni di distanza dal “salto mortale” intende fondare una nuova chiesa), il romanzo di Oe si fa denuncia della nostra sostanziale povertà ideale e della nostra umanità ridotta a brandelli, e insieme presagio di una stagione di sofferenza che se è farsa nella vuota predicazione millenaristica di improvvisati messia è invece ineludibile verità dell’oggi e ancor più del domani incombente, e chiama ciascuno di noi non all’egocentrica sterilità del pentimento ma alla matura assunzione di responsabilità della vigilanza.

Eccovi, invece dell’incipit (la traduzione del romanzo, per Garzanti, è di Gianluca Coci), un brano di Kierkegaard sulla natura della fede.

«Senza rischio non esiste la fede. La fede è precisamente la contraddizione tra l’infinita passione nell’intimo dell’individuo e l’incertezza oggettiva. Se fossi capace di comprendere Dio oggettivamente, non potrei credere, ma proprio perché non sono in grado di fare ciò allora devo credere. Se voglio preservare la mia fede, devo stare sempre attento a serbare inalterata l’incertezza oggettiva, come se mi trovassi sopra acque profonde oltre settantamila braccia e, malgrado ciò, riuscissi a non perdere la fede».

3 commenti su “Ikuogiona e la voce di Dio”

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