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Devota fuorilegge

Recensione di “Antigone” di Sofocle

Sofocle, Antigone, Garzanti
Sofocle, Antigone, Garzanti

“L’eroe sofocleo rifiuta gli appelli alla ragione e le implorazioni, le preghiere, non intende ascoltare, dovrebbe imparare e non lo fa, non sa cedere, adattarsi, non accetta vincoli di sorta […]. Comunque vadano giudicate, queste persone incarnano dei valori […], Antigone è devota in modo ossessivo alla legge morale […]. Gli atteggiamenti mentali di certe controfigure (Ismene nell’Antigone […]) sottolineano maggiormente la durezza adamantina del protagonista […]. Attraverso Ismene, Sofocle dimostra anche come sia trasmissibile l’eroismo attraverso l’esempio, come esso abbia più forza del pensiero razionale”.


Verità contro ragione, dunque, e giustizia contro obbedienza; nel preciso, puntuale ritratto che Umberto Albini fa dei personaggi che popolano e animano le tragedie di Sofocle si svela il senso ultimo degli immortali capolavori del grande autore greco: le tragedie non sono altro che il compiersi di un destino già scritto, cui non si sfugge non per il capriccio o la volontà ubriaca di un qualche dio, ma perché ciò che incarna l’eroe è qualcosa che trascende ogni umana imperfezione, ogni tentennamento, ogni debolezza; è l’assolutezza intangibile di un principio. A questo genere di principi, fondamenta di un universo etico che fugge qualsiasi compromesso e la cui purezza vale il più estremo dei sacrifici, è possibile soltanto consacrarsi, votarsi, donarsi, accettando, come inevitabile conseguenza, l’annullamento di sé. Così, le tragedie di Sofocle rappresentano allo stesso tempo la più alta e preziosa e nobile esaltazione dell’individualità e la sua negazione feroce, il suo sacrificio consapevole, la cancellazione della singolarità nella piena fedeltà a ciò che è eterno, che precede e legittima l’esistere di ogni umano consesso.

Al centro di questo crocevia, lungo la linea di confine che separa e unisce autoaffermazione e annichilimento, si colloca Antigone, protagonista dell’omonima tragedia, rappresentata per la prima volta ad Atene nel 442 a.C., nel corso delle Grandi Dionisie. Insieme figlia e sorella di Edipo, vittima incolpevole di un fato maligno, Antigone, in quest’opera meravigliosa e terribile, trascende la propria natura e si fa strumento di una giustizia che è legge inviolabile della coscienza. Conclusa la battaglia per la conquista di Tebe (che ha visto fronteggiarsi Eteocle e Polinice, i due fratelli di Antigone), Creonte, re della città, ha decretato che avrà sepoltura soltanto uno dei due, Eteocle, che a difesa di Tebe si è battuto, mentre Polinice verrà lasciato sulla nuda terra, preda delle fiere e delle intemperie. A questa spaventosa decisione, figlia di un prepotente desiderio di vendetta, di un’ansia spasmodica di rivincita, Antigone si oppone in nome della pietà e dell’amore; uomo, sostiene Antigone, è soltanto colui che si sforza di conservare viva in sé la scintilla della compassione, che rinuncia al tirannico esercizio del potere per mantenersi saldo nel rispetto di consuetudini che sono parte della sua stessa essenza. È dunque la ribellione di tutto ciò che è umano quella cui dà voce Antigone; è la rivolta della vita, e della dignità che le appartiene, contro la brutalità cieca e ignobile della forza, del diritto piegato all’interesse di parte. Incarnazione di un principio, di un dovere non scritto e proprio per questo universale, Antigone affronta da sola la sua battaglia: la sorella Ismene, priva del suo coraggio e orfana del suo senso di giustizia, non se la sente di starle accanto, e quando, incalzata dal tragico precipitare degli eventi , muterà atteggiamento, sarà la sessa Antigone a scacciarla, rimproverandole una pavidità che non può in alcun modo essere tollerata né giustificata, perché troppo alta è la posta in gioco. Armata soltanto del proprio convincimento, divenuta ella stessa quella legge morale che si è assunta il compito di difendere a qualunque costo (malgrado il decreto emanato da Creonte, Antigone darà sepoltura al fratello e rivendicherà il suo gesto, finendo per essere condannata a morte), questa donna sventurata e fiera accetta di rinunciare alla propria esistenza per non oltraggiare, tradendola, quella verità dell’anima e del cuore che sola custodisce il significato ultimo del suo essere nel mondo: “A lui, laggiù, darò una fossa. Dopo l’azione morirò. Sarà esaltante. M’allungherò al suo fianco, sua. Al fianco d’uno mio. Devota fuorilegge. È fatale: dovrò farmi accettare dai sepolti più tempo che da questa gente viva. Sì, là sotto sarà il mio fermo sonno”.

Sovrumana fino al punto di non aver più nulla di umano, la generosità di Antigone è foriera di drammi, dispensatrice di lutti; è lo sguardo sdegnato del dio che punisce l’alterigia dell’uomo e l’insensatezza della sua crudeltà

Eccovi lincipit. La traduzione, per Garzanti, è di Ezio Savino. Buona lettura.

Ci apparteniamo, Ismene, occhi di sorella. Edipo, lascito d’umiliazioni… Ne sai tu una, e quale, che non farà matura, Zeus, per la nostra coppia d’esistenze? No, no. Non esiste strazio, errore cieco ovunque, non c’è piaga, barbarie, che non abbia visto, e veda, io, radici d’umiliazioni tue, e mie. Oggi nuovamente. Parlano di ordini assoluti, fatti gridare per la gente a Tebe da lui, dal generale, in queste ore. Che sarà? Hai sentito anche tu? Forse no, forse a te è oscura la manovra d’odio che umilia chi è più tuo.

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