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L’impossibile riforma di uomini, cose, istituzioni e costumi

Recensione di “Il Codice di Perelà” di Aldo Palazzeschi

Aldo Palazzeschi, Il codice di Perelà, Mondadori
Aldo Palazzeschi, Il codice di Perelà, Mondadori

La leggerezza di uomo fatto interamente di fumo riflette il miracolo creativo dell’immaginazione, simboleggia la libertà pura del pensiero, richiama quella felice anarchia dell’intelletto che, come un folletto dispettoso, apre le porte della realtà al colorato disordine del fantastico; l’esistere al limite dell’inconsistenza di un uomo composto soltanto di fumo è la dolce eco di una fantasia inesauribile e travolgente, assetata d’inaspettato e capace di dar vita ai mondi in cui desidera abitare, di popolare terre sconosciute, di ridisegnare il vero.


La delicata assurdità, la follia gentile di un uomo che è semplicemente fumo è insieme un’artistica dichiarazione d’intenti e uno sfumato (ma non per questo opaco) “manifesto” politico, è la raffinatezza giocosa di un “romanzo futurista”, di pagine studiatamente stralunate da cui emerge, limpida, una “metafisica” dell’imperfezione, una “teoria universale” dell’ingiustizia. L’uomo di fumo, la buffa, “impossibile” creatura di nome Perelà, è il protagonista di un’opera originalissima e felice intitolata Il Codice di Perelà, sorta di novella sperimentale, o se si vuole di ardito antiromanzo, pubblicato nel 1911 dallo scrittore, poeta e giornalista Aldo Palazzeschi.

In una prosa quasi sognante, che fa pensare alla grazia innocente delle favole, l’autore racconta la parabola di un uomo di fumo che, dopo aver vissuto per ben trentatré anni nella cappa di un camino, alla morte delle tre donne che quel camino avevano fino ad allora alimentato (e dalle cui sillabe iniziali dei nomi, Pena, Rete e Lama, egli ricava il proprio: Perelà), lascia la propria casa per andare alla scoperta del mondo. Accolto dall’entusiastica curiosità delle persone che incontra, acclamato da cittadini comuni e autorità del paese in cui si ritrova al punto da venir designato come nuovo estensore del Codice Legislativo, Perelà appare come un dono della Provvidenza; il suo atteggiamento dimesso, il fanciullesco candore, la cortese disponibilità all’ascolto – che altro non sono se non l’espressione di un’alterità assoluta, di una essenziale diversità – dapprima gli guadagnano il favore del popolo ma ben presto gli si ritorcono contro; nel momento in cui, per emulare l’incorporea natura di Perelà e trasformarsi in una senziente nuvola di fumo, un uomo decide di darsi fuoco, la creatura diviene bersaglio di ogni sorta di accuse e additata, quale figura astuta e ingannatrice (nonché causa prima di dolore e afflizione), al disprezzo di ognuno: “La mia opinione dunque… la mia opinione dunque… la mia opinione è molto semplice, ed è questa precisamente: da un pezzo nella nostra terra non s’è fatto che seminare fumo, e ora la terra incomincia a fumare, mi sembra un fatto logico, naturale, naturalissimo. Se voi seminate nella terra chicchi di granoturco o di frumento, raccoglierete spighe di granoturco e di frumento, avete seminato fumo in abbondante quantità e raccogliete abbondante messe di fumo, non potete raccogliere fascine di legna. Deste un valore eccessivo a un fatto che non lo meritava, parve non ci fosse di meglio al mondo che il fumo, parve che con esso le più gravi questioni si potessero risolvere, non s’ebbe più che fumo davanti agli occhi, uomini e donne vestiti di quel colore, feste, balli, banchetti dati in suo onore, inni in sua lode, onore e lode di quale cosa, di che? […]. Voi lo avete innalzato? E voi lo riabbassate al giusto livello. Ma molto in giù […] fino in fondo. Gli avete affidato opere gravissime senza valutare quale sproposito formidabile stavate commettendo? E voi gliele togliete quelle opere, ma presto, subito, senza por tempo in mezzo. E soprattutto… allontanatelo dalla società, date retta a me, cercate il modo di farlo scomparire al più presto”.

La conservazione dello status quo, l’allontanamento, non importa quanto brusco, quanto violento, di qualsiasi elemento perturbatore dell’equilibrio sociale, pur se narrato ancora con un tono a metà tra lo stupito e l’ironico, denso d’istintiva meraviglia e dunque in perfetta continuità stilistica con quell’atmosfera fiabesca che caratterizza l’intero romanzo, àncora l’avventura di Perelà a un ben precisa dimensione e contribuisce a inquadrare ogni accadimento (quel che è già avvenuto come ciò che ancora deve succedere) in una prospettiva politica e umana che senza fatica riconosciamo come nostra. Così l’invenzione si fa apologo, il sogno utopia e il suo tragico fallimento specchio di un eterno presente cui tutti apparteniamo. Come sovrani, e in pari tempo come sudditi.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe.. Re.. La…
– Voi sareste un uomo, per caso?
No. Io sono una povera vecchia, un uomo per caso sarete voi.
È vero, è vero, scusate, avete ragione, voi siete una povera vecchia, un uomo sono io.
– Voi che cosa siete?
– Io sono leggero… un uomo leggero… tanto leggero… e voi siete una povera vecchia, lo so, come
Pena, come Rete, come Lama, anche loro erano vecchie. Sapreste dirmi se ciò che si vede in fondo a questa via è la città?
– Sì
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