Recensione di “Uno strano luogo per morire” di Derek B. Miller
Per Sheldon Horowitz, ex marine ottantaduenne, eroe di guerra in Corea, vedovo e padre di un ragazzo morto durante il tragico conflitto in Vietnam, il presente non è che un continuo rimpianto del tempo trascorso.
Per il soldato Sheldon Horowitz, per il patriota ebreo americano Sheldon Horowitz, a tal punto fedele alla propria nazione da sacrificare, per essa, il suo unico figlio, l’alba di ogni nuovo giorno non è che il rinnovarsi di un inestinguibile senso di colpa e insieme il ripetersi martellante, ossessivo, di domande destinate a rimanere senza risposta: “Perché io? Perché è toccato a me sopravvivere? Perché ho finito per perdere proprio le persone che ho amato di più? Perché, invece di proteggerle, le ho uccise? Perché, cieco e sordo all’amore e armato soltanto di una retorica ampollosa e inutile, ho assassinato mio figlio? E perché ho continuato a uccidere, rovesciando tutto il dolore per la sua perdita su mia moglie? Perché ho fatto questo?”.
Protagonista del thriller Uno strano luogo per morire, applaudita opera prima di Derek B. Miller, Sheldon Horowitz è allo stesso tempo un personaggio e un modello, una sorta di confuso archetipo di un’indecifrabile modernità. La misura e il senso della sua vita riposano nei ricordi che custodisce, nella sala degli orrori della sua lucidissima memoria ferita, che senza sosta lo riporta ai momenti drammatici, terribili, immodificabili nei quali è stato costretto a prendere una decisione, a scegliere, e scegliendo ha plasmato non solo la sua esistenza, ma anche quella del figlio e della moglie.
La seconda guerra mondiale, segnata da Hitler e dalla sua folle apocalisse antisemita, consumata nella silente connivenza di una buona fetta di mondo, orrori che Sheldon, all’epoca troppo giovane per imbracciare armi, non ha potuto combattere; poi la Corea, e la minaccia comunista a un ordine mondiale appena riconquistato, affrontata da cecchino, da eroe, e nonostante ciò così insopportabilmente carica d’atrocità da non meritare giustificazione, con la morte, spettro innominabile, a danzare beffarda tra la sabbia e il mare, a razziare anime, abbandonando al pianto dei commilitoni e alla disperazione dei parenti, corpi crivellati, membra mutilate, volti ridotti a maschere irriconoscibili. E ancora un nuovo incubo, il Vietnam, con Sheldon un’altra volta fuori gioco, questa volta perché gli anni che si porta appresso sono troppi, e il figlio Saul, prossimo a diventare a sua volta genitore, che parte per il fronte, nella borsa il corredo militare e il vuoto argomentare paterno che monotono batte sempre sugli stessi tasti: cosa significhi davvero essere uomo e cosa comporti compiere il proprio dovere, fare ciò che va fatto quando è necessario, quando la patria chiama. Saul che parte per non tornare più.
Scorre il Novecento, secolo breve e terribile, nella coscienza afflitta, impotente e tormentata di Sheldon Horowitz, mentre ogni istante si incenerisce nell’attesa crudele di un’occasione di riscatto e svanisce impalpabile, volutamente inafferrabile, vanamente inseguito dall’amore della nipote Rhea, la figlia di Saul, che pur di trascorrere accanto all’uomo che l’ha cresciuta dopo la morte del papà il poco tempo che ancora rimane a Sheldon, intende convincerlo a lasciare New York e a trasferirsi a Oslo, dove lei vive assieme al marito.
È da qui, dall’arrivo del nonno di Rhea in Norvegia, che il romanzo prende le mosse. L’autore lascia che a descrivere il suo tempo, l’attualità, sia il sarcasmo brutale di Sheldon; che a riflettere l’impossibilità di comprendere (e forse anche di accettare) un mondo che ha smarrito se stesso pensino il sentenziare velenoso e arguto del vecchio, poi ecco che l’azione prende il sopravvento. In un giorno all’apparenza uguale a tanti altri, Sheldon, comodamente sistemato sul divano a leggere, sente rumori di lotta provenire dall’appartamento al piano di sopra; questione di qualche attimo ed ecco comparire, davanti alla porta d’ingresso di casa sua, una donna e suo figlio piccolo. È il momento che Horowitz attende da sempre, l’atto misericordioso di Dio (o della vita) che gli concede la possibilità di fare la cosa giusta, di emendarsi, almeno fino a un certo punto, per l’imperdonabile errore commesso con suo figlio.
Così apre la porta (un semplice gesto, eppure gravido di conseguenze, proprio come gravidi di conseguenze sono stati i gesti non compiuti da tante, troppe persone durante l’olocausto nazista, quando decine, centinaia, migliaia di porte rimasero chiuse di fronte agli ebrei perseguitati, ai bambini piangenti, alle donne disperate, ai vecchi annichiliti ma con ancora scintille di vita a brillargli nelle pupille dilatate dalla paura) e fa entrare la donna e suo figlio. Un attimo di tregua, prima che ogni cosa acceleri di nuovo: la porta di casa sfondata da un uomo che con ogni probabilità è il compagno della donna e il padre del bambino, la mamma che gli si para davanti nel tentativo di fermarlo e viene uccisa a sangue freddo e Sheldon che prima si nasconde dentro un armadio con il piccolo e poi scappa assieme a lui in cerca di salvezza. Cuore della vicenda, naturalmente, è la narrazione della fuga del vecchio e del bambino, a più riprese intervallata dai ricordi di Sheldon, che nel ripercorrere l’intera sua vita, e gli sbagli compiuti, vede in quella giovanissima vita da salvare il mondo così come dovrebbe essere, un mondo capace di comprendere la differenza tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, e di schierarsi, come fece Onan, la cui parabola Sheldon racconta al piccolo, indifferente al fatto che i due parlino lingue diverse e dunque non si capiscano.
“Viene ricordato come colui che sprecò il proprio seme […]. Ma come sono andate davvero le cose? Onan aveva un fratello, e suo fratello e sua moglie non riuscivano ad avere figli. Vai a sapere perché, Dio decide che quella famiglia ha bisogno di un bambino, così, come si usava a quei tempi, quando gli uomini sembravano tutti intercambiabili, Dio dice a Onan di recarsi nella tenda di suo fratello e fare shtup con la cognata. Ma per Onan è sbagliato. Entra nella tenda, convinto che Dio non possa vedere […] e inizia a masturbarsi. Esce dalla tenda, racconta a Dio di avere eseguito l’incarico e se ne va. Dio, visto che è Dio, si infuria con Onan […]. Ma io mi domando: perché Onan ha pensato che un ordine ricevuto da Dio potesse essere immorale? Che esistesse una moralità, un codice che risiedeva nelle parti più profonde dell’anima umana […] già in grado di separare cos’era giusto e cos’era sbagliato con una limpidezza capace di negare l’autorità più potente e navigare secondo la propria rotta? Quindi la vera domanda diventa: perché non ho potuto infondere un po’ di quella caratteristica in mio figlio, per munirlo del coraggio di mettermi in discussione, negare i miei stessi sentimenti, e rifiutare di partire per una guerra futile dove è stato ucciso? Per vivere più a lungo di me. Perché non ho potuto donare più di quella… qualsiasi cosa sia… a mio figlio?” .
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Neri Pozza Editore, è di Massimo Gardella. Buona lettura.
È una luminosa giornata estiva. Sheldon Horowitz è seduto all’ombra in un angolo tranquillo del Frgnerparken, a Oslo; la sedia pieghevole torreggia sulla tovaglia da picnic, per cui il cibo è fuori dalla sua portata. Sul piatto di carta in grembo è rimasto mezzo panino con karbonade che non gli piace. Giocherella con un dito sulla condensa della bottiglia di birra aperta poco prima, e per la quale ha ormai perso interesse.
ciao, Paolo questa volta la tua presentazione mi ha beccato in un momento di stanchezza fisica e quindi con i muscoli un poò irrigiditi e le gambe deboli, sono più ricettivo e calmo davanti al PC, di conseguenza ho gustato i tuo scritto con molta emozione e interesse, complimenti come sempre.
ciao alla prossima
Grazie a te Nino. Per la costanza e l’affetto.