Recensione di “Dinner party” di Pier Vittorio Tondelli
Domenica 11 luglio 1982. Pomeriggio. Ancora poche ore e la Nazionale italiana di calcio di Enzo Bearzot scriverà un’indimenticabile pagina di storia sportiva laureandosi, per la terza volta, campione del mondo di calcio. Ancora poche ore e il Paese intero si riverserà, eccitato e gioioso, per strade e piazze cantando, ballando e urlando a squarciagola cori trionfali.
Ancora poche ore prima che il liberatorio triplice fischio finale dell’arbitro segni l’inizio della festa in campo e sugli spalti e quelle immagini di giubilo, replicate da milioni di schermi televisivi, esplodano in frammenti di abbracci, brindisi, grida; divampino in un’orgia scomposta di braccia levate al cielo, salti, corse, baci; colpiscano, come schegge di granata, cuori e menti. È in questo esiguo arco di tempo, dilatato dai segreti e dalle bugie, eroso dai silenzi e dai rancori e infine spezzato dall’ammissione, dalla confessione di verità che altro non sono se non esauste dichiarazioni di resa, che si consuma il tragicomico dramma borghese narrato da Pier Vittorio Tondelli in Dinner Party, l’unica opera teatrale della sua produzione. Metafora splendente e disperata di un tempo sospeso sul nulla, di un presente vestito d’illusione, il “ritratto di famiglia in un interno” disegnato dallo scrittore di Correggio, è un corto circuito d’ambivalenza, alienazione e solitudine.
La descrizione d’ambiente di Tondelli, perfetta nella sua essenzialità, precipita immediatamente l’azione che sta per svolgersi (così come i suoi protagonisti, nessuno dei quali è davvero quel che mostra di essere) in un sorta di zona franca, in una deserta terra di nessuno priva anche del più tenue legame con l’attualità: mentre infatti per l’Italia intera quella domenica è il giorno della finale dei mondiali di calcio, nella casa-palcoscenico (una casa, specifica non a caso Tondelli, che può trovarsi in qualsiasi città) dove tutto si consumerà, la partita che sta per cominciare, e l’attesa nervosa, eccitata, che l’accompagna, sono semplici rumori di fondo, somigliano all’accumularsi fastidioso di dettagli superflui, fanno pensare al brusio di voci in una stanza satura di conversazioni anonime, a quel continuo rimasticare frasi che impedisce alle persone sedute a uno stesso tavolo di parlarsi, confrontarsi, raggiungersi.
Solitudine dunque, orgogliosamente rivendicata come alterità, sbandierata con fierezza (ma che in verità non ha nulla a che vedere con una consapevole rinuncia al mondo e alle sue logiche dominanti), cui si accompagna, come conseguenza inevitabile, l’opacità etica ed esistenziale dei personaggi, ognuno prigioniero della propria inconsolabile immaturità: gli amanti segreti Alberto e Giulia, lo scrittore fallito Manfredi, detto Didi, fratello del di lei marito Goffredo, le cui frustrate ambizioni artistiche, ferocemente annegate nell’alcool, scintillano nell’esuberanza effimera, da fuoco d’artificio, del suo crudo motteggiare – “Il giorno in cui il luppolo non darà più birra e l’orzo non fermenterà più, trasformandosi in malto (e quindi in ottimo, in sublime, distillatissimo e fumoso whisky); quando l’uva non darà più vino e le mele sidro, e anche una misera e banale pera marcia alcool; ecco, in quel giorno sventurato per l’umanità e maledetto dalla natura, io mi ammezzerò” – l’impotente “ospite d’onore” Tommy Trengove, amico dello scomparso patriarca di famiglia, che per quanto abbia a cuore i destini di ogni singolo parente si rende conto di non poter fare nulla per nessuno di loro, l’inconsistente giornalista in carriera Mavie, capace solo di discettare sulla “qualità” delle collaboratrici domestiche, classificate in base alle aree geografiche di provenienza – “[…] l’ho sempre sostenuto: meglio le filippine delle eritree, e meglio le eritree delle etiopi. Però meglio le etiopi delle indonesiane, devo onestamente riconoscere. Ancor meglio delle pakistane” – e infine il già citato Goffredo, detto Fredo, consorte tradito di Giulia, che nell’impeccabile maschera d’uomo e professionista che quotidianamente indossa tenta (peraltro senza successo) di nascondere la sua omosessualità.
Nei due brevi atti di cui si compone la pièce tondelliana, il rumoreggiare sordo che annuncia il disastro (terribile eppure quasi impalpabile, privo di consistenza, come se persino il dolore e lo sgomento non avessero autenticità ed esistessero soltanto come posa, come atteggiamento da sfoggiare in pubblico, come copione da recitare) perfidamente si fonde con gli esaltati boati temporaleschi che dapprima salutano le reti dell’Italia, poi la conclusione dell’incontro e in ultimo l’artificioso ricongiungimento fraterno tra Didi e Fredo, pallidi eroi senza gloria, meschini primi attori di quell’insipida commedia degli equivoci che è la vita: “Boato di fine partita. L’Italia è campione del mondo. Sulla terrazza di casa Oldofredi i due fratelli sono abbracciati, immobili”.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
È il tardo pomeriggio di domenica 11 luglio 1982. Siamo nel salone di casa Oldofredi. È un soggiorno molto “tropical” adorno di piante e di alcuni oggetti di alta tecnologia quali un potente impianto hi-fi, un personal computer, un videocitofono nascosto fra kenzie e palme. Naturalmente, trattandosi della tana di una generazione di trentenni o poco meno, anche alcuni oggetti metropolitani come, per esempio, un plastico in cartoncino dello skyline di Manhattan… Non si preciserà comunque la città in cui si trova questa casa. Si tratta di una qualsiasi città italiana.