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La fallita eternità

Recensione di “La storia dei sogni danesi” di Peter Høeg

Peter Høeg, La storia dei sogni danesi, Mondadori
Peter Høeg, La storia dei sogni danesi, Mondadori

Chiuso nella sua sostanziale incomprensibilità, irraggiungibile al pari di un Dio, enigmatico e oscuro come un labirinto, il tempo ci osserva vivere; e la vita, in ogni istante, non è che reazione all’insolubile dilemma rappresentato dal suo incessante scorrere, da quel continuo mutare, da quella coincidenza di opposti impossibile eppure assolutamente vera che fa sì che “in molti avvenimenti quotidiani, se non in tutti, sia contenuta l’essenza di un intero secolo”.


Nel tempo, dunque, e soltanto in esso, esistiamo e cessiamo di essere, per questo l’unico possibile atto di ribellione alla dittatura che esso impone implica di necessità la cancellazione del tempo, la rinuncia a qualsiasi sua forma, a tutte le sue manifestazioni, dal soffio impercettibile del secondo al marziale passo di marcia del secolo, fino all’eco ingigantita e terrificante di quell’infaticabile procedere che è il millennio, con il suo ereditario carico di orrori e miserie e la fioca, persistente, spavalda luce del suo spirito mai domo. E liberarsi del tempo, negarlo, scaraventarlo il più possibile lontano da sé e poi voltargli le spalle è quanto decide di fare, a Morkhoj, in Danimarca, un ricco e aristocratico conte. Siamo nel XVI secolo, e il conte, seguace di Paracelso (grazie al quale egli riesce a scoprire che il centro del mondo si trova tra i suoi domini), decide di dichiarare guerra al tempo, e di vincerla: isola dal resto del mondo se stesso, la sua famiglia e le sue proprietà, ferma tutti gli orologi che possiede e ignora il passare dei giorni, dei mesi, degli anni; ignora tutto questo fino a dimenticarsene.

Comincia così, con una sorta di aneddoto fantastico che ha il sapore della riflessione filosofica, dell’interrogativo cui non è possibile rispondere ma al quale non è nemmeno consentito sfuggire, La storia dei sogni danesi, romanzo d’esordio di Peter Høeg, che conobbe fama internazionale al principio degli anni 90 con la pubblicazione de Il senso di Smilla per la neve (già recensito in questo blog). Raffinato esperimento letterario e insieme fascinosa “cronaca del possibile”, La storia dei sogni danesi, nella cui bizzarra architettura (con la sua cronologia scomposta, arruffata, e le sue verità sempre mascherate d’illusione, vestite di menzogna) l’autore abilmente nasconde l’ambizione di condurre la narrazione al di là dei propri confini (e dunque in qualche modo di rifondare l’atto stesso di raccontare), è un viaggio dell’immaginazione e dell’intelletto fino alle radici del mondo.

Al carattere principale dell’opera, quel conte dal sapere vasto e disordinato, quell’uomo di lettere e di scienze che non può fare a meno di trascinar se stesso nella semioscurità delle cantine degli alchimisti e nell’aereo iperuranio delle dispute teologiche (e che malgrado ciò non è che un attore tra i tanti nella magnifica, ricchissima, rappresentazione di Høeg), e al suo incarnare una ben precisa visione della realtà, fa da contraltare il giovane Carl Laurids, figlio adottivo del suo amministratore, nato, “secondo l’opinione dei più” la notte di Capodanno del 1900, voce della storia così come la conosciamo, e del tempo così come lo sperimentiamo: “Fu in quel periodo che Carl Laurids scoprì il corso della storia. Fino ad allora il tempo non aveva significato nulla per Morkhoj, né per lui. Tutto ciò che il canto dei guardiani annunciava era il ritmo delle notti e dei giorni, che poi si riducevano a uno solo […]. Ma quando Carl Laurids ebbe accesso ai cento volumi in folio con la storia di Morkhoj vi trovò le prime tracce di qualcosa che lo risucchiò nel resoconto dell’eterna ripetizione di cui i volumi erano pieni: la caducità. Scoprì che sotto un’apparente regolarità c’erano piccole cose che finivano e scomparivano per non tornare mai più […]. Così iniziò a ricostruire la storia di Morkhoj […]. Quando ebbe finito, Carl Laurids sentì che il futuro lo baciava sulla fronte per svegliarlo definitivamente dall’antico sonno di Morkhoj […]. A quel punto il Conte lo mandò a chiamare”.

Attorno alle figure di Laurids e del conte, insieme avversari e compagni di viaggio, Peter Høeg affolla, come fossero inciampi del caso, o destini già scritti, o ancora semplici coincidenze, fatti, che per loro natura accadono senza che niente e nessuno possa impedirlo, una galleria di esistenze, un mosaico di storie diverse, ciascuna eco dello scontro che ha opposto Carl Laurids al conte e in pari tempo conseguenza di questa battaglia campale, finché il cerchio aperto dalla decisione del conte di separare il tempo dalla vita non viene chiuso dal fluire del tempo, dal rinnovarsi delle generazioni, dall’aspirazione “a una vita ordinata”, dall’atto definitivo del nascere, dove tutto trova giustificazione, riposo, senso, finanche la morte, e il suo più fedele compagno: il tempo, ancora una volta.

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.

Carl Laurids nasce a Morkhoj in una notte di Capodanno – è stato impossibile scoprire chi fossero i suoi genitori – e poco dopo viene adottato dall’amministratore della tenuta. A quell’epoca sono almeno duecento anni che la proprietà si barrica contro il progresso dietro un muro altissimo, sormontato da punte di ferro, le cui grigie pareti calcaree sono incrostate dei resti fossili di animali vissuti nel fango.

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