Recensione di “Aspettando i barbari” di John Maxwell Coetzee
Un’anonima cittadina fortificata agli estremi confini di un non ben definito Impero. Poco lontano, un lago le cui acque stanno diventando sempre più salate; tutto intorno la sterminata uniformità del deserto e al di là di quella distesa gli indistinti contorni delle montagne.
È qui, in questo non luogo che è archetipo di ogni luogo e in un tempo che lentissimo sembra scorrere al di là del tempo e della storia, che la parabola etico-esistenziale di un uomo d’ordine, legge e potere, un magistrato, si compie; è in questa contesa terra di nessuno che il risveglio di una coscienza si fa dapprima atto di ribellione, poi caduta, poi degradazione e infine riscatto; è dove nulla di davvero importante sembra destinato ad accadere che gli interrogativi su ciò che siamo e sulle responsabilità che ne derivano si fanno talmente pressanti, così urgenti e tragicamente concreti da costringere all’impegno, all’azione, al sacrificio.
Qui, in un palcoscenico in apparenza povero ma in realtà vestito d’essenziale, lo scrittore sudafricano John Maxwell Coetzee, premio Nobel per la Letteratura nel 2003, ambienta il suo meraviglioso e straziante Aspettando i barbari: attraverso i suoi personaggi – oltre al magistrato, protagonista del romanzo, il suo principale antagonista, il crudele colonnello Joll, uno dei comandanti della Terza Divisione, l’unità d’élite dell’esercito imperiale, sguinzagliata in ogni dove per contrastare la temuta invasione delle popolazioni stanziate al di là del deserto (i barbari), e una ragazza barbara, catturata assieme ad altri proprio da Joll nel corso di una sortita e torturata affinché confessasse quel che sapeva dei piani d’attacco elaborati dal nemico – egli dà vita a uno scontro di volontà e di idee che, al passo ordinato di una partita a scacchi, procede ineluttabile verso il baratro dello scacco matto.
La prosa di Coetzee, magistrale per potenza espressiva, filtra nella tessitura dei caratteri opposte visioni del mondo e dell’uomo; lungo l’affilatissimo filo del rasoio di Occam di una narrazione che nulla concede alla bellezza fine a se stessa dello stile per donarsi senza riserve al tema che si è assunta l’onere di esplorare, l’autore racconta di una presa di coscienza (quella del magistrato, che da obbediente suddito dell’Impero ne diviene avversario, spinto dapprima da un sordo sentimento di pietà nei confronti dei prigionieri brutalizzati da Joll e dai suoi uomini, poi da un’oscura forma d’amore, o forse da una specie di egoistica pietà, da quell’oziosa misericordia che, al pari di un lusso qualsiasi, può concedersi solo chi non sia mai stato sfiorato da dolore e disperazione, verso una giovane), di una ribellione che cresce quasi per forza d’inerzia, inconsapevole di sé e della sua natura, che sopravvive al castigo inevitabile (il magistrato, dapprima esautorato da Joll, viene imprigionato con l’accusa di collaborare con i barbari e poi torturato) solo perché colui che la incarna a tutti i costi vuole vivere e qualsiasi stato di degradazione morale e materiale ritiene preferibile all’annientamento definitivo della morte, e che infine coglie la propria rivincita all’ombra del tragico fallimento cui sono andati incontro i tanto temuti persecutori (Joll e il suo esercito, partiti per spazzare via una volta per tutte i barbari, vengono logorati dalle tattiche di guerriglia nemiche e in breve tempo decimati, e la cittadina dove tutto era cominciato, lasciata sguarnita, si affida nuovamente al magistrato per organizzare la resistenza).
La vicenda raccontata da Coetzee (la trasparente metafora morale che disegna e che ha il carattere semplice e terribile della vita vissuta) non conosce eroismi ma soltanto gradi differenti di abiezione e di vergogna; ogni sentimento, l’amore come l’odio, la pietà come l’indifferenza, il sadismo come la compassione, risulta alla radice mutilato d’autenticità per il semplice fatto che chi lo coltiva (non importa se per cinico calcolo d’opportunità o per qualcosa che sembra somigliare a un’istintiva generosità) ha da tempo perduto ogni diritto a farlo, ogni possibile legittimità: “I bambini non dubitano mai, neppure per un momento, che i vecchi enormi alberi sotto cui giocano dureranno in eterno; che loro cresceranno forti come i padri, fertili come le madri, che vivranno e saranno felici e alleveranno a loro volta i propri figli lì dove sono nati. Che cos’è che ci ha impedito di vivere nel tempo come i pesci nell’acqua, come gli uccelli nell’aria, come i bambini?”.
Alla circolarità eterna del tempo della natura, un tempo neutro, che non si lascia sfiorare né dal bene né dal male, Coetzee contrappone la linearità del tempo storico degli uomini, forgiato dagli uomini e dagli uomini contaminato; in esso egli cala i suoi personaggi come si calano secchi nell’oscurità sterile di un pozzo privo d’acqua, e con la distaccata severità del testimone ne racconta la sconfitta, la deriva.
Aspettando i barbari è un’opera di sconvolgente bellezza; l’incontestabile esattezza dei suoi assunti, al pari dell’innegabile verità delle conclusioni cui giunge, ne fanno a tutti i diritti un classico immortale, un romanzo che, una volta cominciato, non si vorrebbe mai smettere di leggere, e una volta letto risulta impossibile da dimenticare.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Mara Baiocchi. Buona lettura.
Mai visto niente del genere. Due dischetti di vetro cerchiati di metallo davanti agli occhi. È cieco? Capirei se fosse cieco, se volesse nascondere occhi che non vedono. Ma non è cieco. I dischetti sono scuri, dall’esterno sembrano opachi, però lui ci vede attraverso. Mi spiega che sono un’invenzione nuova.