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Lungo una scia che svanisce

Recensione di “Diluvio di fuoco” di Amitav Ghosh

Amitav Ghosh, Diluvio di fuoco, Neri Pozza
Amitav Ghosh, Diluvio di fuoco, Neri Pozza

Le vite dei singoli, che di continuo si intrecciano in un perverso gioco di coincidenze e rimandi che richiama alla mente un teatro di burattini, e le sorti del mondo intero; gli interessi personali e i richiami orgogliosi alla libertà degli uomini e del commercio, alle leggi e ai decreti di Dio scritti con l’oculata scaltrezza di un affarista; gli inconfessabili segreti, che il tempo inesorabilmente svela, e le passioni, così irresistibili e nel medesimo tempo così distruttive, cui tutti, prima o poi, finiscono per soccombere.

E infine la guerra, l’impari scontro di due imperi, e la legge del più forte che ancora una volta si impone e si ammanta di legittimità mascherandosi da diritto. Giunto al capitolo finale della sua splendida trilogia Ibis (i cui primi due capitoli, Mare di papaveri e Il fiume dell’oppio ho già recensito in questo blog), Amitav Ghosh ricompone con ogni cura un complesso e suggestivo mosaico letterario nel quale la geografia e la storia, le tattiche belliche, la varietà delle lingue parlate e le innumeri verità delle religioni professate non sono semplice materiale narrativo ma si radicano profondamente nei vissuti dei protagonisti illuminandone caratteristiche, peculiarità, virtù e vizi, e contribuendo a spiegarne scelte, decisioni, viltà, eroismi, sacrifici.

In Diluvio di fuoco (questo il titolo del romanzo che conclude la saga), è la memoria, che come uno scrigno racchiude desideri, speranze, traumi, abissi di menzogna e divoranti ansie di riscatto, il filo rosso che unisce i destini di un manipolo di persone. Memoria di quanto accaduto a bordo della goletta Ibis (e raccontato in Mare di papaveri), memoria di quell’accendersi unico di circostanze che ha unito per sempre persone tra loro diversissime, raja e figli di schiavi, lascari e armatori milionari, oppiomani disperati e giovani donne fiere, pronte ad affrontare ogni rovescio. Alla tolda di quell’imbarcazione e a ciò che vi accadde Ghosh torna attraverso una prosa fluida e rigogliosa, risalendo al presente di ciascun individuo per ogni sorta di via possibile, assumendosi il compito, insieme improbo ed esaltante, di dare espressione a quell’infinita sequenza di possibilità, a quell’interminabile sporgersi verso la realtà che è l’essenza autentica di tutto ciò che esiste.

Sullo sfondo di un evento di straordinaria drammaticità e di ancora maggiore importanza (la guerra dell’oppio, combattuta tra Inghilterra e Cina nella seconda metà del XIX secolo e conclusasi nel 1842 con la capitolazione dell’impero Manchu ratificata dal trattato di pace di Nanchino), Amitav Ghosh mette i suoi personaggi di fronte a se stessi; l’ordalia del sangue è un diabolico canto delle sirene che chiama a sé, da ogni latitudine, anime disperse ma non perdute, tutte in qualche modo oscuramente consapevoli di appartenere l’una all’altra. E a contatto con la morte, nel suo spettrale, angosciante incombere, è come se il vivere d’improvviso rilucesse, come se ogni respiro, ogni giorno, ogni più piccola cosa meritasse il massimo dell’attenzione, la più assoluta devozione.

Allora ecco che l’amore, fino a quel momento interpretato (dall’algida e calcolatrice moglie di Benjamin Burnham, divenuto immensamente ricco grazie al traffico di oppio) come comoda finzione, si fa dapprima bruciante passione (per il giovane Zachary Reid, ingenuo avventuriero più che mai desideroso di affrancarsi dalla propria miseria materiale) e poi lacerante, nostalgico rimorso per il ragazzo conosciuto in gioventù (e oggi capitano dell’esercito inglese in procinto di essere mandato in Cina a combattere in difesa della “libertà del commercio”), al quale, per la prima e unica volta, ella donò il proprio cuore. All’amore sensuale della signora Burnham corrisponde quello filiale di Raju, figlio dell’ex raja Neel, disposto a imbarcarsi con gli inglesi e perfino a marciare con l’esercito della regina Vittoria pur di ritrovare il genitore, arrestato per debiti anni prima, ed è ancora l’amore, quello del sepoy Kesri Sing per la sorella Deeti (protagonista di Mare di papaveri e in questo romanzo soltanto evocata, ma fortemente presente) e quello dell’uomo di fatica Maddox Colver (che di Deeti è il marito) a decidere della loro sorte e a renderli fratelli, a battezzarli custodi delle reciproche vite.

Opera di cristallina bellezza, solida nell’architettura narrativa, raffinatissima nello stile, suggestiva nella sua “universalità linguistica” (nelle quasi 700 pagine del romanzo si alternano bengali, indostano, cantonese, gujarati), Diluvio di fuoco è insieme un incantevole romanzo d’avventura e una trascinante storia d’amore, un minuzioso trattato sulle campagne militari e un manuale di navigazione, una coraggiosa dissertazione economico-politica e un dettagliato resoconto di una pagina di storia. Al netto di qualche lungaggine di troppo e di alcune macchinosità e forzature (inevitabili, considerata la necessità di far quadrare ogni cosa), Ghosh non avrebbe potuto congedarsi meglio dai suoi lettori.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Neri Pozza Editore (che ha pubblicato anche i primi due romanzi della trilogia), è di Anna Nadotti e Norman Gobetti. Buona lettura.

L’havildar Kesri Singh era uno di quei soldati che amano stare in prima fila, soprattutto in giornate come quella, in cui il suo battaglione marciava attraverso un territorio già assoggettato e il compito dell’avanguardia consisteva nell’inalberare i vessilli del paltan e sfoggiare a beneficio della folla la propria migliore espressione da parata. I contadini assiepati sul ciglio della strada erano persone semplici, e Kesri non aveva bisogno di guardarli in faccia per sapere che lo stavano fissando con occhi sgranati dalla meraviglia.

4 commenti su “Lungo una scia che svanisce”

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