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Dopo la guerra, la guerra continua

Recensione di “Dopo la guerra” di Harvé Le Corre

Hervé Le Corre, Dopo la guerra, E/O
Hervé Le Corre, Dopo la guerra, e/o

La ferocia può avere il volto del gelido vento d’inverno, somigliare a una maligna corrente d’aria che soffia senza sosta e bracca uomini e cose penetrando dappertutto, trasformando ogni goccia di pioggia in un velenoso stiletto di ghiaccio, cristallizzandosi come un maligno incantesimo nei rivoli d’acqua sporca disseminati a ridosso dei marciapiede.


Oppure esplodere nell’infuocato bagliore dell’estate, frastornare i pensieri, confondere le emozioni, sciogliere volontà nello splendore implacabile di un cielo privo di nubi, annebbiare i sensi e prostrare i corpi nel dardeggiare violento della luce, in quell’uniforme, lattiginoso biancore che rende ciechi. La ferocia può avere i contorni indistinti della memoria, sibilare roca nel sussurro amaro del rimorso, ferire, colpire con accanimento selvaggio nel crudele, insopportabile corto circuito di un rimpianto che non si riesce in alcun modo a far tacere, martellare cuore e viscere nel galoppare folle di una fantasia, nella contemplazione atrocemente sterile di una seconda possibilità, di un vissuto alternativo capace di salvare dalle viltà, dalle crudeltà inflitte e subite, dalle menzogne dette e sopportate, dalle terribili conseguenze delle scelte compiute.

La ferocia abita nei volti sofferti e sprezzanti dei poliziotti e dei criminali, riverbera nei segreti custoditi dalle loro donne, si indovina nelle scomode eredità trasmesse ai figli; la si percepisce nel rantolo di una città sopravvissuta a stento all’incubo del secondo conflitto mondiale e alla barbarie dell’occupazione nazista e incapace di ritrovare la dignità perduta; e come un’antica maledizione torna nel precipitare di un’intera nazione fino in fondo all’abisso di una nuova guerra, nell’opaca rivendicazione di un diritto che è solo sopraffazione, bisogno di un nemico contro il quale scagliarsi. La ferocia, destino condiviso di generazioni di vinti, di vivi che in nulla si distinguono da coloro che sono già morti, è il filo conduttore etico e narrativo dell’intenso e dolente Dopo la guerra di Hervé Le Corre, un noir di trascinante splendore che nel ritmo serrato di una vendetta ossessivamente inseguita e perseguita riflette con coraggio e piena onestà intellettuale sul nostro passato prossimo (il dilagare del nazismo in Europa, gli orrori delle deportazioni forzate e dei campi di concentramento, l’infamia del collaborazionismo nei Paesi occupati, l’epurazione seguita alla sconfitta del regime hitleriano e le sue molte, troppe amnesie, la “sporca guerra” francese d’Algeria e le giovani vite che consuma) e su quanto la sua ombra lunga, così densa di miserie e tragedie, si allunghi sul nostro oggi e pregiudichi il domani ancora da costruire.

Nel confronto tra i protagonisti principali del romanzo – da una parte il corrotto commissario Darlac, compromesso con il sistema di potere instaurato dai tedeschi, arricchitosi con le delazioni e il sequestro dei beni confiscati agli ebrei rastrellati e condotti ai campi di sterminio, dall’altra il sopravvissuto Jean Delbos, tradito proprio dall’ex amico Darlac, che gli aveva promesso protezione, costretto ad abbandonare il figlio piccolo e ad assistere alla morte della moglie, deportata come lui, miracolosamente scampato alla macchina della morte nazionalsocialista e tornato per regolare i conti – nell’esasperata violenza di una città (Bordeaux, alla metà degli anni cinquanta) schiava del compromesso, cresciuta come un fiore malato nel fango della brutalità e dell’odioso arbitrio della legge del più forte, lo scrittore francese dà corpo a una realtà d’incubo per la quale ogni redenzione è ormai impossibile. I quartieri feriti dalle bombe alleate, i muri crivellati di proiettili, i palazzi sventrati, le strade sconnesse e maleodoranti e la derelitta umanità che in quella teoria d’orrori e meschinità si sforza di muoversi e respirare sono un girone d’inferno, un lago di cenere e melma nel quale annega ogni residuo d’umanità, di pietà, d’amore. In una Francia incapace di smettere di combattere e uccidere Bordeaux non è che un terreno di scontro tra gli altri, un teatro in rovina all’interno del quale conta solo vivere (o illudersi di essere vivi), non importa a quale prezzo. La ferocia, e la colpa che la scatena, sono la sostanza letteraria e tematica di un’opera meravigliosa e terribile, impreziosita da uno stile raffinato e nel medesimo tempo essenziale, capace di colpire tanto per splendore espressivo quanto per profondità e sottigliezza argomentativa: il ritmo serrato dei dialoghi, le magistrali descrizioni d’ambiente, i complessi ritratti psicologici dei personaggi, le cui contraddizioni, debolezze ed eroismi emergono poco alla volta, evocate dal procedere degli eventi, il perfetto intersecarsi dei piani temporali e degli scenari (il campo di concentramento, Bordeaux prima e dopo la guerra, Parigi, nel cui abbraccio Jean è in qualche modo riuscito a tornare alla vita, l’Algeria, dove finisce Daniel, il figlio di Jean, chiamato a combattere una guerra che non gli appartiene), fanno di questo romanzo un autentico gioiello, capace di superare di slancio i confini della letteratura di genere (peraltro impeccabilmente interpretata).

Eccovi l’incipit. La traduzione, per le edizioni e/o, è di Alberto Bracci Testasecca. Buona lettura.

L’uomo è sulla sedia con le mani legate dietro la schiena, in mutande e canottiera, immobile, con la mascella cascante e il mento sul petto, respira con la bocca. Dalle labbra spaccate gli cola un filo di bava sanguinolenta. Ogni volta che inspira il petto è scosso dai singhiozzi, forse conati di vomito. L’arcata sopraccigliare destra, spaccata anch’essa, gli sanguina sull’occhio gonfio, ridotto a una specie di uovo nerastro. Sulla fronte ha un enorme bernoccolo blu. Dalla faccia il sangue gli è sgocciolato sulla canottiera. Ce n’è anche per terra. L’unica illuminazione della stanza è la lampada appesa sopra il biliardo, che concede un cono di luce gialla e lascia in ombra il resto, cioè quattro tavolini tondi da bar con le sedie intorno, il segnapunti e la rastrelliera per le stecche.

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