Recensione di “Il treno era in orario” di Heinrich Böll
“Presto. Presto. Presto. Presto. Ma quand’è, presto? Che terribile parola: presto. Presto può essere tra un secondo, presto può essere tra un anno. Presto è una parola terribile. Quel presto comprime il futuro, lo rimpicciolisce, e non c’è nulla di certo, nulla di nulla, è l’incertezza assoluta. Presto non è nulla e presto è molte cose. Presto è tutto. Presto è la morte…”.
Presto è il momento in cui Andreas, soldato dell’esercito hitleriano, protagonista del lungo, tragico racconto di Heinrich Böll intitolato Il treno era in orario, finirà i suoi giorni dilaniato da un’esplosione; presto è ogni attimo di lucidità nel quale egli sa con certezza che la sua ora è giunta; presto è l’atroce destino che condivide con gli altri ragazzi, è il devastato scenario di guerra che lo segue ovunque e dappertutto lo precede, e che ha reso uniforme ogni orizzonte; presto è il freddo, meccanico sferragliare del treno che lo riconduce al fronte; è l’urgente bisogno che sente di pregare per tutti coloro che soffrono, di chiedere a perdono a quelli cui ha fatto del male, di rivedere, anche solo per un istante, per una frazione di secondo, gli occhi di una donna che ha sentito su di sé ad Amiens, in Francia, durante un combattimento, poco prima di venir ferito.
E presto è lo spazio angusto e soffocante di uno scompartimento ingombro di corpi, è l’atrocità di un destino condiviso per forza e non per scelta, il destino di chi va a uccidere e a essere ucciso, è l’odiosa spavalderia di chi, per farsi coraggio, difende, gridandola a squarciagola, la propria fede nell’invincibilità delle milizie del Reich, e la cupa disperazione di chi sa che ormai tutto è perduto; ed è la solidarietà che improvvisa si accende tra sconosciuti, è l’erompere di una confessione scatenata da un cenno di saluto, dalla semplicità di un sorriso; è l’ascolto benevolo, paziente, di una pena nel cui abisso è precipitata un’intera generazione. All’appuntamento con la propria morte Andreas si avvicina in compagnia di due improvvisati compagni di viaggio; un sottufficiale tradito dalla moglie e un ragazzo che, nell’isolamento di una trincea, è stato violentato dal suo superiore: “Sì […]. Proprio così. Mi ha sedotto un maresciallo. Sono completamente corrotto e infetto, e non c’è nulla al mondo che mi dia gioia […]. Per sei settimane non ci siamo mossi da una postazione sullo Sivas… tutt’intorno neanche una casa… neanche un muro crollato […]. Mio Dio […] ci ha sedotti, che altro c’è da dire? Finimmo tutti così… tranne uno. Quello non volle. Era anziano, aveva moglie, figli; la sera ci aveva mostrato spesso piangendo le fotografie dei suoi bambini… prima. Quello non voleva, si è divincolato, ha minacciato… era più forte di noi cinque messi assieme. E una notte che stava di guardia tutto solo, il maresciallo lo freddò con un colpo di pistola. È strisciato fuori della postazione e lo ha accoppato… alle spalle. Con la sua stessa pistola […]. E a sua moglie hanno spedito una lettera dicendo che lui era morto per la grande Germania nelle paludi di Sivas”.
Della loro odissea, del loro smarrimento, della loro fragilità, sentimenti e stati d’animo che contrappone ai giganti di cartapesta della “grande Germania” e della guerra, strumento di conquista del “Reich millenario”, Böll racconta con vibranti accenti di dolorosa pietà; egli guarda a quell’inferno dei vivi con aperta compassione, e nel suo narrare timido e sussurrato, nel tentennante procedere di una prosa che ha il respiro mozzo della paura e riflette l’incespicare della mente in un foltissimo groviglio di pensieri ciechi e ricorrenti ossessioni – “La vita è bella, pensa, era bella. Dodici ore prima di morire devo riconoscere che la vita è bella, ma è troppo tardi. Sono stato ingrato, negando che esiste una gioia umana. E la vita era bella […]. Ho avuto una vita infelice… una vita mancata, come dicono, ho sofferto secondo per secondo sotto quest’odiosa uniforme […] e solo per un decimo di secondo ho conosciuto il vero amore umano, l’amore tra uomo e donna, che deve pur essere bello […]. Ho bevuto Sauterne… su una terrazza a Le Tréport […]. Per ultimo pensa ancora una volta agli ebrei di Cernovcy, poi gli vengono in mente gli ebrei di Leopoli, di Stanislav e di Kolomyja, e quei granatieri laggiù nelle paludi di Sivas […] e quella povera, brutta, freddolosa prostituta di Parigi, che ha respinto nella notte…” – dà corpo al più insopportabile degli assoluti, quello della solitudine, e disegna un mondo frammentato in unità isolate l’una dall’altra, anime e coscienze chiuse all’amore, alla comprensione, alla salvezza: “Andreas si sporge in avanti per guardare l’orologio […] e vede che sono le sei, le sei in punto. Un gelido spavento lo pervade tutto, ed egli pensa: Dio, Dio, che ne ho fatto del mio tempo, non ho fatto niente, non ho mai fatto niente, devo pregare, pregare per tutti”.
La Germania avvelenata dal nazismo e umiliata dalla guerra, centro di gravità de Il treno era in orario, rivive, come prepotente rimorso, nel giovane Fendrich, personaggio principale de Il pane dei verdi anni, racconto che chiude il volume centrato su una nascente storia d’amore. Simbolo di un Paese che vuole a tutti i costi dimenticare il proprio recente passato (e le proprie responsabilità), Fendrich, che quel passato sente nella carne, tormentata dai morsi di una fame impossibile da placare, e che nel medesimo tempo rappresenta, nella sua vita attiva di lavoratore e di oculato risparmiatore, il domani agognato da un intero popolo, abbandona ogni cosa nel momento in cui incontra Hedwig, la figlia del preside del ginnasio da lui frequentato: “Più tardi ho pensato spesso a come sarebbero andate le cose se non mi fossi recato a prendere Hedwig alla stazione: sarei entrato in una vita diversa, così come per sbaglio si sale in un treno diverso: una vita che allora, prima di conoscere Hedwig, mi pareva abbastanza tollerabile […] ma quella vita ch’era pronta per me come il treno sull’altro lato del marciapiede, il treno sul quale per poco non sarei salito, quella vita la vivo adesso nei miei sogni, e so che quanto allora mi sembrava abbastanza tollerabile sarebbe stato, invece, l’inferno”. Quel che il mondo intorno a lui giudica ribellione, per Fendrich non è che ritorno a se stesso, riappropriazione, risveglio; è presa di coscienza, dovere, ci insegna Böll, di ognuno e di tutti.
Eccovi l’inizio de Il treno era in orario. La traduzione, per Mondadori, è di Italo Alighiero Chiusano. Buona lettura.
Mentre attraversavano il buio sottopassaggio, udirono sopra di loro il fragore del treno che arrivava, e la voce sonora dell’altoparlante disse con dolcezza: «Tradotta militari in licenza, proveniente da Parigi per Przemysl, ferma a…».