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L’inafferrabile, il multiforme

Recensione di “Le tre stimmate di Palmer Eldricht” di Philip K. Dick

Philip K. Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldricht, Fanucci Editore
Philip K. Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldricht, Fanucci Editore

Di tutte le opere di Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldricht è probabilmente la più tetra. Prevalgono i colori grigi e metallici, soprattutto sul pianeta Marte, sterile e desolato, mentre la Terra appare come una mela cotta dalla temperatura eccessiva, che rinchiude i suoi abitanti in casa o li costringe a muoversi evitando la luce del sole e l’aria aperta. Sul piano psicologico, una malinconica consapevolezza, filtrata soprattutto attraverso la coscienza del protagonista, Barney Mayerson, sottolinea che non esiste via d’uscita dal fallimento e dalla sconfitta individuali”.

“[…] in Stimmate Dick realizza qualcosa che non ha precedenti nel suo narrare, e che peraltro non ha mai più ripetuto. Da un punto di vista esteriore potrebbe essere considerato un semplice espediente, ma in realtà diventa qualcosa di fondamentale: il romanzo si apre con un finto esergo, una nota a uso interno […] che tuttavia, nel tempo del romanzo, si situa alla sua fine […] anche a considerare le cose dall’esterno la lettura del romanzo può non finire mai”.

Si colgono, nelle riflessioni Carlo Pagetti e Giuseppe Di Costanzo che aprono e chiudono Le tre stimmate di Palmer Eldricht di Philip K. Dick (Fanucci editore, traduzione di Umberto Rossi), non tanto le caratteristiche distintive dell’opera (né la metafisica cupezza che lo attraversa né la sua architettura narrativa, quella suggestiva circolarità del racconto che unisce principio e fine, che il lettore intravede, assapora e che sembra promettere un altro scampolo di storia al di là della storia stessa, esauriscono la straordinaria ricchezza formale e sostanziale di questo lavoro) quanto le condizioni necessarie e sufficienti del suo concepimento e della sua successiva articolazione.

Solo in uno scenario del tutto privo di speranza, quale è quello rappresentato da un pianeta riarso, abitato nello stesso modo in cui si affolla una cantina o un rifugio durante un bombardamento aereo (e nel quale si riflette il roccioso e sterile Marte, meta di una colonizzazione forzata e senza senso), è infatti possibile dare vita a un intreccio nel quale la realtà perda a tal punto di significato da fondersi con scenari d’incubo partoriti da menti devastate da una droga potentissima di probabile origine aliena. E ancora, è solo in una realtà così fluida, così palesemente “irreale”, che al tempo, o a qualsiasi cosa si percepisca come tempo, può essere concesso di ribellarsi alle leggi che lo determinano, di sospenderne l’autorità, e di dilatarsi in un indefinito ed eterno presente continuo, oppure di sfilacciarsi in tanti paradossali futuri possibili condannati a svanire come sogni, o fantasie, pochi attimi dopo essere stati evocati, oppure a distanza di secoli, o di millenni (perché non c’è alcuna differenza tra il tempo concepito e il tempo “oggettivo” in una dimensione nella quale la verità è tutto ciò che si riesce a pensare e nessuno dei pensieri cui si è stati in grado di dare forma), dalla loro elaborazione.

Condizioni necessarie e sufficienti, si diceva. Ma di cosa, esattamente? Di un romanzo “impossibile da raccontare” (Di Costanzo)? Di una trama che non vale la pena tentare di riassumere perché, come sabbia, scivola tra le dita e sembra moltiplicarsi per generazione spontanea? Di un ambizioso, labirintico e magnifico “palazzo degli specchi” letterario all’interno del quale, come cavie in preda al terrore, si rincorrono suggestioni teologiche (espressamente richiamate fin dal titolo), azzardi filosofici (cos’è, davvero, il tempo? Come definiamo lo spazio? Cosa si intende per coscienza? E per intelletto? E cosa separa i loro domini di pertinenza? Si può pensare di arrivare all’essenza di ciascuno di questi misteri innescando un processo di negazione? Eliminando progressivamente, come fossero superflue sovrastrutture, tutto quel che sappiamo, o meglio crediamo di sapere, sull’argomento?), metafore trasparenti e severe (i due protagonisti del romanzo sono, almeno in una delle loro incarnazioni, uomini d’affari senza scrupoli, ed ecco servita, a beneficio dei lettori più pigri e dei recensori più miopi, l’immancabile critica alla società capitalistica e ai suoi eccessi)?

Più probabilmente di un romanzo di fantascienza bizzarro e geniale, che nel rispetto dei canoni del genere va oltre il genere stesso e si offre, allo stesso modo di un saggio, o di un romanzo manifestamente più ambizioso, che rifiuti in partenza ogni possibile “etichettatura”, ogni definizione immediata, automatica, come piattaforma per un radicale esercizio di ricerca. E se, come ci insegna proprio la filosofia, quel che importa davvero è formulare domande e non trovare risposte (meno che mai definitive), ecco che l’inafferrabilità di Le tre stimmate di Palmer Eldricth emerge come il maggior pregio del romanzo: Dick trucca le carte, confonde mestiere e talento, semina indizi nel momento stesso in cui moltiplica false piste e vicoli ciechi e ci sfida a risolvere, assieme a lui e non malgrado lui, l’insolubile enigma della camera chiusa. Un enigma che può essere affrontato in un solo modo: entrando in quella camera, e accettando di restarne prigionieri.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Barney Mayerson si svegliò con un mal di testa fuori dal comune, per scoprire che si trovava in una camera da letto nient’affatto familiare in un appcon nient’affatto familiare. Al suo fianco, con le coperte che le arrivavano fino alle spalle nude e lisce, continuava a dormire una ragazza nient’affatto familiare, che respirava lievemente con la bocca, i capelli una matassa di bianco cotonato.

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