Recensione di “Quel che resta del giorno” di Kazuo Ishiguro
Come il palpitare della vita percepito attraverso un grembo materno. Come il brulicare operoso, infaticabile, di insetti e formiche nella calda semioscurità dei loro nidi. Come l’erompere, il divampare delle forze primordiali della terra che il silenzio del mondo accoglie in sé. Come tutto ciò che, inespresso a parole, è costretto alla marginalità nervosa di un gesto, di uno sguardo, di un sorriso trattenuto, di una lacrima ricacciata in gola a forza.
Così le emozioni, i sentimenti, quel che accade nel privato universo di ognuno e il contemporaneo procedere della storia affollano i serrati cancelli della sorvegliatissima prosa di Kazuo Ishiguro, talentuoso scrittore giapponese naturalizzato britannico, e, simili a crepe nell’uniformità di una superficie levigata, o a lievissime increspature in un immoto bacino d’acqua, si indovinano appena lungo il pacato fluire di una scrittura fredda e perfetta, educata alla neutralità, distante dal suo oggetto, che si sforza di restituire ciò che descrive con la limpidezza impersonale di uno specchio: con chirurgica esattezza, ma senza nessun coinvolgimento.
Forma e sostanza, nel medesimo tempo opposte e complementari nel loro dialettico incontrarsi e collidere, non sono soltanto la principale caratteristica (nonché il maggior pregio) di Quel che resta giorno, romanzo magnifico e indimenticabile con il quale Ishiguro nel 1989 si aggiudicò (più che meritatamente a mio avviso) il prestigioso Man Booker Prize, ma fanno da palcoscenico letterario ed esistenziale a una vicenda la cui profonda, essenziale tragicità tanto più risalta e ferisce quanto più, narrandola, ci si sforza di allontanarsi da essa, di considerarla nient’altro che un nudo elenco di fatti.
Nei panni di Mr Stevens, un maggiordomo inglese ormai anziano che ha consacrato ogni istante della vita all’esercizio della professione, manifestato la più incondizionata lealtà al proprio datore di lavoro, impeccabilmente esercitato, giorno dopo giorno, i compiti previsti dal ruolo assegnatogli e onorato del rispetto più profondo norme, regole e tradizioni alla base del suo impiego (che è anche il suo mondo, l’unico che conosca e nel quale riesca a trovare un senso), Ishiguro disegna lo straziante ritratto di un uomo divorato dalle contraddizioni, consumato dai bisogni e dalle urgenze di una vita mai completamente vissuta, ma anzi ignorata al punto da divenire malattia, e così testardamente condannata a restare inappagata da non avere altra scelta che sfiorire in muti palpiti d’infelicità.
Oltre tre decenni di servizio trascorsi nelle sale elegantemente austere di Darlington Hall, dapprima (tra gli anni Venti e Trenta) agli ordini di Lord Darlington, influente nobiluomo che si adoperò, all’indomani della Grande Guerra, affinché venissero almeno in parte riviste le durissime condizioni di pace imposte alla Germania con il Trattato di Versailles e in seguito finì per stringere scomodi legami d’amicizia con alcuni alti papaveri del nascente partito nazionalsocialista tedesco (in particolar modo con Joachim von Ribbentrop, ministro degli esteri del Reich hitleriano), poi alle dipendenze del facoltoso americano Mr Farraday, vengono raccontati da Mr Stevens con monotona, sonnolenta regolarità, quasi fossero referenze da esibire in un colloquio, tuttavia, al di là di questo sottile velo di imperturbabilità (che, certo, contribuisce in larga misura a fare di Mr Stevens uno dei più grandi maggiordomi della sua generazione, come lo era stato suo padre prima di lui), oltre la militaresca disciplina dell’autocontrollo, sofferenze e gioie, speranze, desideri e sogni, come fiori selvatici si arrampicano in cerca di luce e aria, anche se il loro sforzo, per quanto caparbio, rimane vano.
Così, l’amore, che tra le mura di Darlington Hall avvampa in rochi sussurri di rivalità, pur unendo i cuori di Mr. Stevens e della giovane e bravissima governante Miss Kenton, appassisce nel luogo stesso in cui è nato, nel gelido splendore di una dimora patrizia dove uomini e donne rinunciano a se stessi per poter essere, compiutamente, ciò che sono stati assunti per essere; né un figlio può concedere a se stesso il tempo necessario ad assistere il padre in un punto di morte (uno dei momenti più intensi del romanzo), perché quel tempo appartiene in via esclusiva a Lord Darlington e ai suoi ospiti, e un maggiordomo degno di questo nome ha l’assoluto dovere di non dimenticarlo mai, qualsiasi cosa succeda.
Così, ancora, quel che è lecito confessarsi l’un l’altra, le sole forme in cui affinità e attrazione possano convenientemente venir manifestate, sono quelle che si esauriscono nel formale riconoscimento di un lavoro ben eseguito, o nell’educato rimprovero di una mancanza, mentre nell’ombra, come incolpevoli bimbi trascurati, languiscono l’esuberanza della giovinezza, la cupa consapevolezza della maturità, e infine la vecchiaia, stagione nella quale ogni pensiero è ricordo, e ogni ricordo rimorso.
Scorrono, i lungo nitidissimi argini stilistici di Quel che resta del giorno, le acque tumultuose dei grandi eventi e dei destini individuali, e nel nitore della scrittura di Ishiguro è quel che in apparenza non ci si stanca di ignorare, umiliare, ricacciare nell’ombra, e cioè l’esistere, l’esistere minuto di chi non fa la storia ma è ad essa indispensabile perché la abita, a scintillare davvero. In quel che promette come nelle occasioni irrimediabilmente perdute.
Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione, per Einaudi, è di Maria Antonietta Saracino. Buona lettura.
Appare sempre più probabile che riuscirò davvero ad intraprendere la spedizione che da alcuni giorni ormai tiene completamente occupata la mia fantasia. Spedizione, vorrei aggiungere, che intraprenderò da solo nella comodità della Ford di Mr Farraday; e che, a quanto prevedo, attraverso gran parte della più bella campagna inglese, mi condurrà fino alla costa occidentale del paese e riuscirà a tenermi lontano da Darlington Hall per cinque o sei giorni almeno.