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Speranza, male incurabile

Recensione di “Gorky Park” di Martin Cruz Smith

Martin Cruz Smith, Gorky Park, Mondadori
Martin Cruz Smith, Gorky Park, Mondadori

Mosca, parco Gorky, una notte come tante. In una radura, poco lontano da una pista di pattinaggio, una guardia si imbatte per puro caso in tre cadaveri seminascosti dalla neve. Le vittime, due uomini e una donna, sono state uccise, non c’è dubbio su questo, ma quel che gli inquirenti giunti sul posto – membri del KGB e uomini della polizia metropolitana, tra cui l’investigatore capo Arkady Renko – si trovano di fronte è uno spettacolo ben più tragico e inquietante di un semplice delitto.


Su quei corpi, infatti, l’assassino si è accanito con metodica ferocia, sfigurandone i volti fino a renderli irriconoscibili e amputando a tutti le ultime falangi delle dita, così da impedire qualsiasi possibilità di identificazione. Come affrontare, dunque, questo triplice omicidio? Come inquadrarlo all’interno del tessuto criminale di una città del tutto priva di esprit de finesse? Come scoprire un così raffinato e spietato omicida in un Paese nel quale “la tipica vittima del tipico assassino russo era la donna con cui quello conviveva, e il fattaccio avveniva quand’era ubriaco fradicio, di solito, con un’ascia che lui dava giù magari dieci volte, prima di colpirla alla testa”? Dove cercare un killer di questo genere? Una persona che in Russia non dovrebbe esistere, per il semplice fatto che la sua organizzazione sociale ed economica non può produrre individui siffatti?

Comincia così, con un rompicapo tanto oscuro quanto affascinante da risolvere e un protagonista tormentato e tenace, Gorky Park, il romanzo più famoso dello scrittore americano Martin Cruz Smith, pubblicato nel 1981 (in Italia un anno più tardi) e divenuto in breve tempo un bestseller internazionale; l’autore restituisce con indubbia abilità (non priva di una sorta di condiscendente simpatia) l’immagine di una nazione immensa e fragile (siamo alla fine degli anni Settanta, al crepuscolo dell’era Brèznev), attraversata da ogni sorta di contraddizione possibile e il cui equilibrio tra la perfezione dell’utopia realizzata e il fallimento certificato dai fatti ma testardamente ignorato dalle élite al potere (per calcolo) come dai più comuni cittadini (per puro istinto di sopravvivenza) è sempre più precario; di questo sterminato territorio, nel quale la sincerità non è che un obliquo abito della menzogna, la verità un dogma di partito valido fin quando un altro assunto non sarà pronto a sostituirlo e l’illegalità, in qualunque sua forma, è spiegabile, e di conseguenza punibile, in termini di eterodossia, Mosca, dove si svolge gran parte della vicenda narrata, è un simbolo, la nitida immagine allo specchio di uno scacco matto.

Qui, nella capitale del “paradiso” comunista, la vita ferve nel sottosuolo del contrabbando, nel labirinto, spesso letale, di favori innominabili fatti e restituiti, nell’odiosa viltà delle delazioni ininterrotte, nella disumana architettura dello spionaggio di stato, capace di annullare alla radice il confine tra singolo e comunità e di trasformare quest’ultima da consesso d’uguali a spettrale esercito di tiranni; e qui Arkady Renko, figlio di un generale eroe del secondo conflitto mondiale, un eccellente stato di servizio e un matrimonio che sta andando in pezzi, si ritrova tra le mani un’inchiesta che non vorrebbe e che pure, in qualche misterioso modo, lo attrae sempre più a sé.

In pari tempo idealista e disilluso, Renko svolge la sua indagine con diligenza e caparbietà, mentre attorno a lui si muovono personaggi quasi impossibili da mettere a fuoco, sfuggenti profili d’ombra legati l’un l’altro da scottanti segreti da difendere a ogni costo – il ricco commerciante di pellicce Osborne, un americano che in passato ha saputo guadagnarsi importanti benemerenze in Russia, il potente procuratore Iamskoy, che conta su Renko per risolvere il caso, il maggiore del KGB Pribluda, nemico giurato dell’investigatore capo, Irina Asanova, splendida ed enigmatica ragazza che sembra sapere qualcosa di fondamentale sul delitto avvento al parco Gorky ma rifiuta ostinatamente di collaborare, e un altro americano intenzionato a far luce sulla strage, costi quel che costi. Tra questi burattinai, che a proprio piacere dispongono di quel gigantesco, inerte teatro di marionette che è Mosca tessendo le trame di un complotto dove si intrecciano ingenui sogni di libertà e rivincita, insaziabili brame di ricchezza e soprattutto rapporti di forza economici tra Paesi rivali, Renko è costretto a giocare una partita d’inaudita crudeltà. E nellelborato mosaico di un giallo solido e potente, dove si moltiplicano le false piste e ogni nuovo indizio sembra infittire il mistero anziché chiarirlo, Cruz Smith racconta senza nessun gratuito senso di superiorità l’inesorabile processo di autoannientamento di un cortocircuito politico-sociale capace soltanto di mentire a se stesso; è in questo contesto terribile e grottesco, che come un incubo incombe su tutti i personaggi, che lautore segue i passi decisi ma sostanzialmente ciechi di Renko, dipingendolo nel medesimo tempo come eroe e antieroe, carnefice e vittima, poliziotto e criminale. Così, è quasi inevitabile che poco alla volta la sua ricerca della verità assuma l’aspetto infido e ripugnante del compromesso, dell’accordo stretto per non restare a mani vuote, per non perdere tutto, per poter ancora guardare avanti, al domani: “Ho scoperto di essere affetto da un male incurabile” […]. E quale? […]. “La speranza”.

Noir d’atmosfera ottimamente costruito (anche se nella parte finale, ambientata a New York, il romanzo si sfilaccia e l’intreccio mostra la corda), trascinante nelle scene d’azione e con un primo attore senza dubbio indovinato, Gorky Park è una lettura piacevole e non priva di spunti d’interesse. Un piccolo classico di genere che incornicia un mondo ormai scomparso (in gran parte se non del tutto) ma non dimenticato.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Mondadori, è di Pier Francesco Paolini. Buona lettura.

Ogni notte dovrebbe essere così buia, ogni inverno così mite, tutti i fari così abbaglianti. Il furgone slittò, rallentando, e andò a fermarsi contro un banco di neve. Ne scese la Squadra Omicidi: agenti ricavati da uno stesso stampino – braccia corte e fronte bassa – in pastrano foderato di pecora. L’unico in borghese era un uomo alto e pallido: l’Investigatore-capo. Questi ascoltò con attenzione il racconto della guardia che aveva trovato i cadaveri fra la neve, allorché si era un po’ allontanato dal sentiero – nel cuore della notte – per un’urgenza corporale. Li aveva visti, allora, e a momenti gli prendeva un accidente. Era mezzo gelato dal freddo, dopo. Gli agenti si fecero avanti, alla luce del faro del furgone.

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