Recensione di “Homer & Langley” di E.L. Doctorow
La disposofobia, disturbo ossessivo-compulsivo che spinge chi ne è affetto ad accumulare oggetti di ogni tipo (il più delle volte completamente inutili) senza più riuscire a disfarsene, è noto anche con un altro nome, un termine che non ha nulla a che fare con la fredda esattezza della nomenclatura medica ed è carico di quel fascino sottile, di quella forza quasi ipnotica di attrazione e coinvolgimento che sono proprie delle storie non comuni, degli eventi eccezionali, di quei fatti straordinari e unici che sconvolgono l’ordine della realtà al punto da superarla, germogliando oltre essa in forma d’aneddoto, cristallizzandosi come memoria condivisa, patrimonio, eredità: sindrome dei fratelli Collyer.
Di Homer e Langley Collyer, rampolli di una benestante famiglia di New York, e della loro progressiva fuga dal mondo, di quel testardo, folle, malato, tragico eppure in qualche modo anche logico, razionale, conseguente, barricarsi dentro le mura della loro ampia ed elegante dimora prospiciente Central Park in compagnia di cianfrusaglie raccolte ai quattro angoli della città e di quintali di giornali, racconta, con accenti di rara intensità emotiva e una prosa attenta, meticolosa, cauta nell’esplorazione di psicologie fragili e complesse e suggestiva nella ricostruzione di un’importante stagione del nostro passato recente (la prima metà del XX secolo, segnata dalle grandi tragedie dei due conflitti mondiali), E.L. Doctorow nel romanzo Homer & Langley, opera di superba raffinatezza stilistica e insieme architettura letteraria dal multiforme, sfaccettato profilo.
La “verità”, l’esattezza di quanto accaduto, gli eventi così come la cronaca li ha registrati, come spesso accade nella produzione di Doctorow, sono semplicemente elementi del suo scrivere, materia narrativa; non è dunque la testimonianza, il resoconto, il tratto distintivo di Homer & Langley, e allo stesso modo non lo è tutto quanto l’autore inventa, il frutto della sua creatività, l’abile lavoro di contaminazione dei dati oggettivi. E se è indubbio che il romanzo viva e risplenda nell’intersezione tra finzione e realtà, è altrettanto innegabile che proprio questa caratteristica moltiplichi i possibili piani di lettura e interpretazione della storia, che nel medesimo tempo si offre come originalissima biografia, dettagliata esposizione di una psicosi registrata in ogni sua fase e magistrale esercizio di stile.
Così, è soltanto nelle sfumature di significato, nell’obliqua prospettiva dalla quale si considera tutto quel che è stato, nel cammino tortuoso del ricordo, nella dichiarata parzialità della confessione (voce narrante del romanzo è quella di Homer Collyer, che ripercorre la vita sua e del fratello dall’infanzia fino al terribile epilogo) che Homer & Langley si lascia scoprire in tutta la sua ricchezza; nelle infinite declinazioni di dolore, commozione e pietà che attraversano le sue pagine, nell’ineluttabile destino di sconfitta che attende i due fratelli e cui l’autore si avvicina in modo indiretto, caricando la sua scrittura di quel metafisico fatalismo che tramuta ogni asserzione in profezia (indimenticabili, in questo senso, l’inizio del libro, quando Homer descrive la sua cecità – “La mia vista non se n’è andata di colpo: è stata una lenta dissolvenza, come nei film. Quando mi spiegarono cosa stava succedendo, decisi di misurarlo, perché allora ero un ragazzo e mi appassionavo a tutto” – e i momenti in cui racconta l’abitudine dei genitori di far recapitare a casa, alla fine dei loro viaggi in giro per il mondo, curiosità di ogni tipo, quasi fosse, questa, una lontana avvisaglia, da nessuno compresa nella sua gravità, di quel che avrebbero sofferto lui e Langley: “I nostri genitori andavano all’estero per un mese all’anno […] il loro ritorno veniva preannunciato dagli oggetti contenuti nelle casse recapitate all’ingresso di servizio dalla Railway Express Company: antiche mattonelle islamiche, libri rari, una fontana di marmo, busti romani senza il naso o le orecchie, antichi armoires dall’odore fecale”); e, non ultimo, nel verificarsi dei grandi eventi della storia – in particolar modo la Grande Guerra, che Langley combatte e da cui torna irrimediabilmente minato nel fisico e nella mente – che a più riprese travolgono i due giovani finendo per distruggerne l’equilibrio e trasformando l’occasionale eccentricità di una sensibilità eccessiva nel patologico cortocircuito di un istinto di sopravvivenza considerato come unica possibile risposta alla spietata invadenza del mondo: “Quando Langley partì per la guerra […] io restai a casa, separato da mio fratello per la prima volta in vita mia. Era come se d’un tratto mi fossi tuffato nella mia giovane virilità indipendente. Che poco dopo venne messa alla prova, a causa dell’epidemia di influenza spagnola che colpì la città nel 1918, portandosi via i nostri genitori […]. Ai tempi dell’influenza, Langley, partito per la guerra in Europa con le Forze di spedizione alleate, era dato per disperso […]. Mi ero chiesto se fosse possibile che tutta la mia famiglia venisse spazzata via nel giro di un mese o due. Avevo deciso che non era possibile. Mio fratello non mi avrebbe mai abbandonato. C’era qualcosa nella sua visione del mondo, compiutamente formata sin dalla nascita, anche se forse rifinita e perfezionata al Columbia College, che gli conferiva l’immunità divina da un destino ordinario come la morte in guerra: erano gli innocenti che morivano, non quelli nati con il vantaggio di non avere illusioni”.
Romanzo splendido e straziante, dolcissimo e atroce, Homer & Langley è, prima di ogni altra cosa, un omaggio, un riconoscimento; la pazzia di questi due fratelli, ci dice Doctorow raccontandone l’infelice e oscura parabola, è manifestazione di una vitalità tenace, della continua, ostinata ricerca di un’alternativa a uno stato di cose che, nel suo essere dominante, nel suo essere espressione della maggioranza trionfante, si rivela tirannico. E, molto più spesso di quanto si creda, crudele fino alla disumanità.
Eccovi, invece dell’incipit, la descrizione di una teoria di Langley relativa ai limiti insormontabili dell’intelligenza umana e le conseguenze pratiche cui ha dato luogo. La traduzione, per Mondadori, è di Silvia Pareschi. Buona lettura.
Il progetto di Langley consisteva nel contare gli articoli di cronaca e archiviarli secondo la categoria: invasioni, guerre, stragi, incidenti d’auto, disastri ferroviari e aerei, scandali rosa, scandali ecclesiastici, rapine, omicidi, linciaggi, stupri, malefatte politiche con una sottocategoria per i brogli elettorali, reati della polizia, crimini della malavita, truffe finanziarie, scioperi, roghi di casamenti popolari, processi civili, processi penali, e così via. C’era una categoria a parte per i disastri naturali come epidemie, terremoti e uragani. Non le ricordo tutte. Langley mi spiegò che alla fine – non disse quando – avrebbe avuto sufficienti prove statistiche per circoscrivere i risultati agli avvenimenti definibili, per la loro frequenza, come manifestazioni fondamentali del comportamento umano. Dopodiché, grazie a ulteriori confronti statistici, avrebbe ottenuto un modello fisso in base al quale stabilire quali articoli andassero in prima pagina, quali in seconda, e così via. Anche le fotografie andavano commentate e scelte per la loro tipicità, ma questo, ammetteva, era difficile. Forse non avrebbe usato fotografie. Era un’impresa colossale, che lo teneva occupato parecchie ore al giorno. Correva fuori a compare tutti i giornali del mattino, e più tardi quelli della sera, e poi c’erano i quotidiani finanziari, le pubblicazioni erotiche, quelle che trattavano dei vaudeville e dei fenomeni da baraccone, e così via. Voleva fissare la vita americana in un’unica edizione, quello che definiva il giornale di Collyer senza data, eternamente attuale, il solo giornale di cui la gente avrebbe avuto bisogno. «Per cinque centesimi» diceva Langley, «il lettore avrà un ritratto a stampa della nostra vita sulla terra. Gli articoli non conterranno i dettagli troppo specifici che si trovano nei soliti giornalacci, perché le vere notizie sono quelle delle Forme Universali, di cui ogni dettaglio specifico non costituisce che un esempio. Il lettore sarà sempre aggiornato, al corrente dei fatti».