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Una pallida, rachitica dignità

Recensione di “Età di ferro” di John Maxwell Coetzee

John Maxwell Coetzee, Età di ferro, Einaudi
John Maxwell Coetzee, Età di ferro, Einaudi

Spezzata dal dolore, erosa dalla debolezza, dall’impotenza, sedotta dalla viltà, incatenata dal timore, fiaccata dalla malattia, tormentata dai ricordi, torturata dai rimorsi, incompleta, formata solo in parte, come un feto prematuramente espulso da un grembo immaturo, imperfetto, ferito. Così è la vita di Elizabeth Curren, insegnante in pensione protagonista del romanzo Età di ferro dello scrittore sudafricano John Maxwell Coetzee.


Donna bianca e benestante in una terra, il Sudafrica (il romanzo è ambientato negli anni ottanta), dominata dall’odiosa logica dell’apartheid e sconvolta da violenze di ogni genere, Elizabeth Curren, cui è stato appena diagnosticato un tumore, affida a una lunga lettera-sfogo indirizzata alla figlia (che ha voltato le spalle alla brutalità, alle ingiustizie, ai soprusi e alle intollerabili disuguglianze razziali del suo Paese emigrando negli Stati Uniti) il bilancio della sua esistenza.

In pagine di bruciante sincerità, nella scandalosa nudità di una confessione piena, nel vicolo cieco di domande retoriche le cui possibili risposte stanno acquattate, come ratti, nell’irraggiungibile oscurità del sottosuolo – “Ho letto Tolstoj […] il racconto dell’angelo che dimora presso il calzolaio. Quante possibilità ci sono che io passeggiando per Mill Street trovi il mio angelo da soccorrere e da portare a casa?” – nelle passioni, nel loro contraddittorio viluppo urlato senza imbarazzo, esposto nel ripugnante memento fisico di cicatrici e piaghe, nella vergogna sbandierata come titolo di merito, contrabbandata come una sorta di dignità pallida e rachitica, di ribellione educata e silenziosa al male e all’incontrollabile proliferare delle sue metastasi – “Forse la vergogna è solo l’altro nome di quello che provo da sempre. Il nome della condizione in cui vivono quelle persone che preferirebbero essere morte” – la signora Curren racconta, attraverso se stessa, l’inferno del Sudafrica, il suolo, arido, riarso di una nazione senz’anima, fatta soltanto di grida, polvere e sangue.

I suoi occhi, che bramano di chiudersi all’indecente spettacolo del mondo, alla pornografia della miseria e del sangue, alla primitiva bestialità delle baraccopoli di lamiera e delle strade di fango dove i neri sfogliano i giorni e gli anni ammassati uno sull’altro e la vita non vale più dei vestiti che uno porta addosso, restano invece testardamente spalancati su un qui e ora eterno e immobile, scandito, come il meccanismo di un orologio, dalla disumana efficienza delle forze di polizia; e quel che il suo sguardo registra, oggi, dopo un’intera vita trascorsa tra menzogne subite e verità di comodo coltivate nel giardino di casa, diviene parola, testimonianza, testamento, eredità.

Gli ultimi respiri di questa donna orgogliosa e disorientata si fanno voce nella sua scrittura fitta, nervosa, urgente, e danno sostanza alla disperata necessità di trovare una ragione al suo esserci, qualcosa che dia significato al ruolo che ha svolto, non importa quanto marginale sia stato; circondata ovunque dalla morte, dal cancro che la condanna, dai giovani di colore falcidiati da agenti e militari (uno di essi, amico del figlio della sua governante, viene ucciso proprio in casa sua a conclusione di un blitz), Elizabeth Curren, prigioniera dell’inconsapevole oscenità del suo perbenismo, sogna la radicalità di un gesto capace di riscrivere per intero il suo passato, ma tutto quello che riesce a fare è offrire (e solo per avere in cambio un briciolo di attenzione) un riparo e del cibo a un senzatetto di nome Vercueil che ha scelto di sistemarsi vicino al suo garage.

La fragilità del rapporto tra Elizabeth e il suo improvvisato ospite, che Coetzee magistralmente compone in un mosaico di cauti avvicinamenti e subitanee ritirate, in un intreccio di ruvidi battibecchi e delicate, sofferte tregue che fanno pensare alla miracolosa bellezza dei rituali di corteggiamento del mondo animale, è specchio dell’abisso dentro il quale il Sudafrica sprofonda, riflesso dell’incubo in cui si dibatte, simile a un mostruoso, agonizzante essere preistorico.

E in questa precarietà, in questo vivere affannato e selvaggio, braccato da una lucida, ferrea volontà di annientamento, le sempre più numerose pagine della lettera della professoressa Curren, affidate alla capricciosa lealtà di Vercueil (toccherà a lui spedire la missiva alla figlia, quando la donna sarà morta), sono come un messaggio chiuso in una bottiglia e lasciato in balia dell’imperscrutabile capriccio delle onde. Potranno giungere a destinazione, e riunire nuovamente madre e figlia, permettere a quella comunione di anime e corpi che è la vita di risplendere ancora, anche se solo per un momento, oppure potranno perdersi per sempre, naufragare nel nulla, pateticamente identiche, nel loro destino di sconfitta, al Sudafrica della segregazione, della lotta, del sacrificio di sé, estremo e insensato. “Ai tempi del codice cavalleresco gli uomini lottavano fino all’ultimo sangue con altri uomini e portavano il pegno della loro dama sventolante sull’elmo. Fiato sprecato predicare la prudenza a questo ragazzo. L’istinto alla battaglia, troppo forte in lui, lo trascina. La guerra: il modo in cui la natura liquida i deboli e favorisce l’accoppiamento dei forti. Ritorna coperto di gloria e il tuo desiderio sarà appagato. Sangue e gloria, sesso e guerra”.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Einaudi, è di Carmen Concilio. Buona lettura.

C’è un vialetto a lato del garage, dovresti ricordarlo, dove qualche volta giocavi con i tuoi amici. Ora è un luogo desolato, privo di vita, inutile, dove le foglie trasportate dal vento si accumulano e marciscono. Ieri in fondo a quel vialetto mi sono imbattuta in un rifugio di scatole di cartone e teli di plastica. C’era un uomo rannicchiato là dentro; un uomo che avevo già visto in giro per strada: alto, magro, con lunghi denti cariati, la pelle segnata da rughe profonde e con indosso un vestito grigio, logoro e troppo ampio, e un cappello dalla tesa floscia. Ce l’aveva in testa ora e dormiva con l’orecchio sulla tesa ripiegata. Un derelitto.

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