Recensione di “Middlesex” di Jeffrey Eugenides
“Cantami, o diva, del quinto cromosoma la mutazione recessiva! Cantami di come fiorì sui pendii del Monte Olimpo, due secoli e mezzo or sono, tra capre che belavano e olive che rotolavano. Cantami le nove generazioni per cui viaggiò sotto mentite spoglie, sopito nel sangue inquinato della famiglia Stephanides. E cantami la Provvidenza, che sotto forma di massacro lo risvegliò per trasportarlo, come fa con i semi il vento, fino in America, dove le piogge industriali lo fecero precipitare su quel fertile terreno del Midwest che era il ventre di mia madre”.
Le parole di un essere umano, di una creatura nata due volte, “bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960 […] maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974”, sospese, nel semiserio richiamo dell’età d’oro della classicità, tra l’ineluttabilità feroce e implacabile della tragedia e un’amara consapevolezza di sapore aristofanesco, rabbiosa, selvaggia e cupa nelle proprie riflessioni e tuttavia non priva di spensieratezza, e adorna persino di una sorta di allegro fatalismo, aprono – coinvolgendo fin da subito il lettore in una vicenda dolorosa e dolcissima, nella quale senza sosta si rincorrono amore e rimorso, colpa e sacrificio, e dove ogni cosa è sfiorata dalle gelide dita di un segreto tormento scatenato da un peccato abbracciato con coscienza pura e cuore traboccante di desiderio – lo splendido romanzo Middlesex di Jeffrey Eugenides, vincitore nel 2003 del premio Pulitzer per la Narrativa.
Eugenides, americano di nascita ma greco d’origine (i genitori di suo padre erano emigrati negli Stati Uniti dalla Grecia), guarda un po’ alla storia della sua famiglia, e un po’ a quella scritta nei libri di scuola nel raccontare l’odissea della famiglia Stephanides, cominciata al principio del XX secolo nel piccolo villaggio di Bitinio, in Asia Minore, non lontano “dall’antica Brussa, capitale dell’Impero ottomano”. Qui, Desdemona Stephanides, nonna della voce narrante nata due volte (protagonista indiscussa dell’opera e nello stesso tempo personaggio tra gli altri, ritratto di una ricca galleria di indimenticabili figure), si dedica in tranquillità alla coltivazione dei bachi da seta in compagnia del fratello Eleutherios, detto Lefty. I sentimenti che uniscono i due giovani non hanno nulla di sconveniente anche se Eleutherios fa sempre più fatica a nascondere l’attrazione che prova per la sorella; e quando (è il 1922) i Turchi mettono a ferro e fuoco la regione per strapparla dalle mani dei Greci che l’avevano invasa e conquistata soltanto tre anni prima, i due fratelli sono costretti a fuggire per sottrarsi a un massacro indiscriminato. È così che la folle suggestione di trasformarsi da fratello e sorella in marito e moglie, accarezzata per qualche fugace momento con quella specie di languida tristezza con la quale, al risveglio, si cerca di trattenere lo sfilacciarsi di un piacevole sogno, diviene realtà: Eleutherios, grazie a una buona dose di coraggio, faccia tosta e fortuna (e soprattutto per merito dell’aiuto ricevuto dal dottor Philobosian, un medico armeno che, in seguito al massacro della propria famiglia da parte dei Turchi, partirà per l’America proprio in compagnia di Eleutherios e Desdemona), trova posto su una nave diretta dall’altra parte dell’Atlantico. Ed ecco che durante il viaggio verso una nuova vita, quella nuova vita comincia a formarsi: Eleutherios corteggia Desdemona come fosse una ragazza conosciuta per caso durante il viaggio, lei accetta quella garbata, splendida finzione fino al punto da crederla vera; dapprima accoglie grata le galanterie di quell’uomo che fino a non molto tempo prima era solo il suo amatissimo fratello, poi, raggiante, capitola, e lo sposa: “La cerimonia ebbe luogo sul ponte; in mancanza dell’abito da sposa Desdemona aveva la testa coperta da uno scialle di seta preso in prestito […]. I due sposi ballarono la danza di Isaia. Fianco contro fianco, tenendosi per mano con le braccia incrociate, Desdemona e Lefty girarono attorno al capitano, una, due, tre volte, dipanando il bozzolo della futura vita insieme”.
In America, l’ombra della felicità si confonde con quella della colpa e del rimorso. Desdemona e il fratello-consorte, stabilitisi presso una loro cugina e suo marito, hanno un figlio, Milton. Ogni timore sulla sua salute risulta infondato, e Desdemona arriva a credere che nessuno, né Dio né il destino, la punirà per ciò che ha fatto. Ma la voce narrante, quella vita nata due volte cui la scrittura di Eugenides dona l’onniscienza degli dei della tragedia classica e insieme la lucida disillusione dei pallidi eroi della modernità, quella ragazza-ragazzo, biologicamente incerta tanto quanto è psicologicamente compatta, e che si svela, nella gioia e nella sofferenza, in un continuo slittamento di piani temporali (nel suo passato di bambina circondata dall’amore puro dei genitori e presa alla sprovvista dai capricci del suo corpo, e nel suo presente di uomo che finalmente sa chi è e che proprio per questo fugge ogni rapporto, si nega ogni coinvolgemento emotivo, ogni slancio passionale), resta in agguato. Finché non giunge anche per lei il tempo di venire alla luce. È Milton, il figlio di Desdemona, a chiudere il cerchio. Sposa Tessie, la figlia della cugina presso cui gli sposi-fratelli erano andati ad abitare, e da lei ha due figli; un maschio, Chapter Eleven, del tutto normale, e una meravigliosa bambina, Calliope, nel cui corredo genetico l’incesto che ha dato origine a tutto e le successive consanguineità fanno fiorire un gene mutato, sviluppano un particolare enzima che fa di Calliope uno pseudoermafrodito, una femmina il cui organo riproduttivo nasconde, al proprio interno, un pene e due testicoli in embrione, una ragazza dalla natura genetica maschile.
La scoperta della condizione di Calliope, le conseguenze che ne derivano, la verità che giunge inaspettata, come un improvviso rovescio di pioggia, come un secondo battesimo, pur essendo l’ossatura di Middlesex, pur tenendo il lettore incollato a ogni riga, pur commuovendo, sconvolgendo, muovendo in egual modo alla pietà e all’ilarità, non rappresentano il cuore dell’opera, che riluce nel disegno perfetto dei personaggi, nella sincera umanità con la quale vengono ritratti, e più ancora (ed è senz’altro questo il suo pregio maggiore) nella sensibilità dell’autore, capace di offrire, lasciandola intatta da pregiudizi e prese di posizione, una storia delicata, difficile, spinosa e controversa. Una storia, nella sua essenzialità, bellissima.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Mondadori, è di Katia Bagnoli. Buona lettura.
Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960 in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan.