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La solita viltà

Recensione di “Prima che il gallo canti” di Cesare Pavese

Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, Mondadori
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, Mondadori

L’uomo, che nitido appare al di là dello scrittore, come in un’istantanea nella quale tutti i soggetti ritratti sono a fuoco, è colui che ha vissuto le vicende narrate, colui che soffrendole le ha ispirate; lo scrittore, che a tratti riemerge a occupare lo spazio dell’uomo, a riempire per intero la scena, si incarna letterariamente nei personaggi cui dà vita e nelle loro azioni e nei loro pensieri si racconta come narratore e come persona. Nelle pagine, dunque, dove ogni cosa prende forma, nell’incedere nervoso della prosa, nel brulicare fitto delle parole che domandano e spiegano, che attaccano e difendono, che sono nello stesso tempo la realtà e l’unico possibile codice in grado di decifrarne il senso nascosto, il mistero, in qualche misura il cerchio si compie, il viaggio termina, il dualismo cessa, e l’uomo e lo scrittore, in platonica unità, giungono a ricomporsi.

Così, a buon diritto Emilio Cecchi può scrivere quel che è forse il giudizio più puntuale espresso sui due romanzi brevi Il carcere e La casa in collina di Cesare Pavese (del 1938-39 il primo, di dieci anni più vecchio il secondo), raccolti da Mondadori in un unico volume intitolato Prima che il gallo canti: “Nei racconti di Pavese […] quale profonda consolazione dalla calma apertura di mente, dall’affettuosa chiarezza delle ragioni morali […] dalla grande capacità di compatimento. Per quanto tutto ciò sia in stretta dipendenza dalla bellezza artistica, sembra uno di quei casi, purtroppo sempre più rari, in cui s’era cercato uno scrittore, un artista, e si è trovato anche e soprattutto un uomo (Di giorno in giorno, 1954)”.

L’esperienza amara del confino – arrestato nel 1935, Pavese viene condannato a tre anni d’esilio in patria, da scontare nel remoto paese di Brancaleone Calabro – è il filo conduttore (evidente anche se in qualche modo esile) della prima storia, il cui protagonista, pallido alter ego dell’autore, è Stefano, di professione ingegnere, la cui sorte non è tanto legata all’opposizione politico-ideologica manifestata verso i fascisti al potere, quanto la conseguenza (o se si vuole una delle conseguenze, e forse nemmeno la peggiore, anche se di certo una delle più umilianti) di un atteggiamento complessivo testardamente orientato verso la sottolineatura di una sostanziale alterità, di una diversità che inevitabilmente sfocia nella solitudine, nel silenzio, nel vicolo cieco di una vita che disperata si sforza di bastare a se stessa. Il confino, perciò, descritto come una prigione senza muri visibili e reso in tutta la sua opprimente, soffocante urgenza, dalla selvaggia eternità della natura trionfante (il mare da una parte, che ogni mattina abbraccia Stefano per poi restituirlo alla spiaggia e ai suoi giorni sempre uguali, le colline dall’altra, che silenziose e labirintiche d’alberi ed erba, ne accolgono le rare battute di caccia consumate insieme a qualche notabile del luogo), è insieme specchio metafisico di una personale deriva e accidente storico; è il punto d’incontro, tracciato sulla mappa del mondo da un capriccioso destino, di un singolo esistere il cui essere è del tutto indipendente da qualsiasi tempo storico, e di un momento preciso, che dà forma (non importa quanto approssimativa) e giustificazione a un malessere dal sapore quasi mitico, a un’infelicità remotissima. Non a caso, il naufragio di Stefano, nel suo confino quasi del tutto apolitico, si consuma in un inappagato desiderio d’amore, rappresentato in egual misura dalla conquista fin troppo facile (e perciò non interessante, anzi addirittura fastidiosa) di Elena, che gli si concede con penoso slancio materno, e dalla bruciante irraggiungibilità della “serva” Concia, impudica e arrogante, “facile” a detta di tutti eppure inavvicinabile.

Ed è ancora l’amore, anche se declinato in modo differente, come rimpianto, come possibilità mancata, come sacrificio tra i molti (anche se più amaro, più atroce, più ingiusto) imposto dalla brutalità della guerra, la traccia del secondo romanzo, La casa in collina, nel quale Pavese richiama il tempo da sfollato trascorso a Serralunga di Casal Monferrato assieme alla famiglia della sorella. Personaggi centrali, in questa storia, sono Corrado e Cate, un tempo amanti, professore il primo, ragazza di poca istruzione ma di indomabile carattere la seconda, madre di un bambino che potrebbe essere figlio proprio di Corrado. Nel loro precario presente, tra i bombardamenti continui che devastano Torino e la vita che cerca scampo nelle colline circostanti, Corrado e Cate si incontrano dopo lungo tempo senza mai ritrovarsi davvero, e quando, all’indomani della rottura dell’alleanza italo-tedesca la guerra sprofonda ancor più nella tragedia, degenerando nelle atrocità fratricide del conflitto civile, esplodendo nelle sanguinose rappresaglie dell’esercito hitleriano, il labile legame spirituale che Cate e Corrado avevano ricostruito andrà in pezzi, al pari delle loro vite; quella di lei, fiancheggiatrice della lotta partigiana, spezzata dall’arresto e dalla deportazione, e quella di lui, che a più riprese sfugge ai rastrellamenti non per volontà di resistere al nazifascismo, per scelta ideologica, ma per una semplice, nuda, abitudine alla viltà, per quell’atavico, cieco istinto di sopravvivenza che fa preferire la vita ai compromessi cui ci si assoggetta per non perderla.

Prima che il gallo canti è l’opera preziosa di un grande scrittore, di un intellettuale finissimo e di un uomo vero. La scrittura di Pavese, di eccezionale intensità nel suo canto sommesso, è morale nella misura in cui si astiene, anzi rifugge, ogni intento moralizzatore, ed è soprattutto sincera, e colma di una pietà e di un’umanità che non hanno bisogno di chiedere assoluzione perché non hanno nulla di cui vergognarsi.

Eccovi, invece dell’incipit, una breve e a mio avviso indimenticabile riflessione sulla guerra e sulla morte che si trova nelle ultime pagine de La casa in collina. Buona lettura.

Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblicani. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche il vinto nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificarne chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.

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