Recensione di “HHhH” di Laurent Binet
Himmlers Inn heißt Heydrich, Il cervello di Himmler si chiama Heydrich, acronimo HHhH. Questo (quattro lettere identiche che danno l’impressione di essere incise, e non semplicemente scritte sulla pagina) il titolo del romanzo-ricostruzione di Laurent Binet dedicato all’attentato mortale subito da Reinhardt Heydrich nel maggio del 1942 a Praga e vincitore nel 2010 del prestigioso Premio Goncourt nella categoria “Premier Roman”.
Romanzo-ricostruzione ho detto, ma in che misura romanzo (e dunque, seppur con tutte le cautele e le attenzioni del caso, invenzione, o comunque libertà d’inventare) e in che misura ricostruzione, ricomposizione di un avvenimento fondata esclusivamente sui documenti e le testimonianze che lo riguardano? Il quesito, di ardua soluzione, non solleva un problema squisitamente formale, perché è lo stesso autore a porlo riconoscendo che, certo, l’immortalità (o la tensione verso di essa) è attributo che appartiene soltanto alla letteratura, e immediatamente dopo rifiutandone la tirannia (per quanto deliziosa possa essere) e dichiarando che l’oggetto del suo racconto non è semplicemente una “storia vera”, un fatto realmente accaduto, ma, almeno ai suoi occhi (e per fortuna non solo ai suoi, mi sento di aggiungere), “uno dei più grandi atti di resistenza della storia umana, e indiscutibilmente […] la più eroica impresa di resistenza della Seconda guerra mondiale”; perciò qualcosa da ricordare, di più, da tramandare, e soprattutto cui rendere omaggio.
Ma ciò cui si rende omaggio è la verità, e la verità, come chiarisce Binet citando Kundera, non coincide, se non superficialmente, incidentalmente, con la letteratura (“C’è forse qualcosa di più volgare di un personaggio inventato?”, chiede); per questo il suo lavoro non può che cominciare con un personaggio realmente esistito, Gabcik, uno dei due paracadutisti autori dell’agguato ad Heydrich (nome in codice: Operazione Antropoide), uno dei due uomini responsabili di aver ucciso “l’uomo più pericoloso del Reich”, l’ideatore della “soluzione finale” della questione ebraica, il gerarca “dal cuore di ferro” (l’ammirata definizione è dello stesso Adolf Hitler), il burocrate efficientissimo, lo sterminatore implacabile, l’inflessibile Protettore (Reichsprotektor) di Boemia e Moravia, la “bestia bionda”. Ed è con la tenacia dello storico (unita all’ardore del partigiano) che Binet insegue la verità, generosamente misurandosi con chi ci ha già provato (nel cinema come nella letteratura, dove arriva a citare, accanto a lavori di grande valore, opere, ad avviso di scrive, che non meritano attenzione alcuna, come Le benevole di Jonathan Littell, imbarazzante per pochezza), ammettendo senza vergogna gli errori commessi, le dimenticanze, tornando a più riprese su quel che diverrà, una volta conclusa, l’opera cui si sta dedicando (sarà un romanzo, un omaggio, una ricostruzione, oppure qualcosa di ancora diverso?), coinvolgendo il lettore nel suo lavoro, intrecciando a più riprese parentesi di vita privata alla sua attività di ricerca e scrittura (“ho l’impressione che tutto, nella mia vita quotidiana, mi riporti a quella storia”).
Indubbiamente, quel che si respira nel trascinante, tumultuoso libro di Binet è la storia; la storia del delirio d’onnipotenza nazista, degli uomini che lo hanno incarnato e la storia parallela di coloro che a questa febbre si sono opposti. Binet, uomo prima che storico e scrittore, traccia una netta linea di demarcazione tra i giusti e gli ingiusti e non se ne vergogna, ma nel difendere il suo punto di vista, nel rivendicare la sua simpatia verso gli eroi che uccisero Heydrich (e che morirono a causa del loro gesto) e con loro verso tutti quelli che, in qualsiasi modo, si opposero alla furia bestiale dell’invasore tedesco, non lascia spazio a parzialità e restituisce, per quanto glielo permettono forze, capacità e onestà intellettuale, per quanto è umanamente possibile, intatto il passato, corredando quel che scrive – i fatti provati e i dialoghi che li contestualizzano, li arricchiscono, e inevitabilmente li tradiscono – con la puntualità incontestabile delle fotografie e sforzandosi di illustrare la situazione in cui si trovavano Slovacchia e Repubblica Ceca (Paese satellite del Reich il primo, Protettorato il secondo) all’indomani dell’aggressione (e della formale conquista) nazista.
La precisazione del momento storico-politico, quindi, come punto di partenza e d’arrivo della narrazione vera e propria: l’organizzazione dell’attentato a Heydrich, e assieme a essa la rappresentazione dei suoi protagonisti; gli alti papaveri del regime hitleriano (Heydrich in testa, naturalmente, e la moglie Lina, poi Himmler, suo capo e nello tempo suo sottoposto, e ancora Göring, Frank, il Führer…), i loro avversari (Benes, capo del governo Ceco in esilio, il già citato Gabcik e il suo compagno Kubis, gli uomini e le donne che li hanno aiutati, Paul Thümmel, alto ufficiale dell’esercito tedesco che per anni lavorò come spia al servizio della resistenza antihitleriana), coloro che vissero quel tempo doloroso e terribile senza avere il coraggio necessario per schierarsi (su tutti Hácha, presidente fantoccio della Repubblica Ceca, ma anche il britannico Chamberlain, tacciato senza mezzi dall’autore di stupidità, oltre che di vigliaccheria) e coloro invece che una posizione la presero (come il soladato Karel Curda, che tradì i suoi compagni denunciandoli alla Gestapo). In questo quadro composito, dinamico, saturo di tensione e spalancato verso il dramma dell’imboscata all’Obergruppenführer Heydrich (avvenuta il 27 maggio del 1942), Binet guida il lettore con maestria e sicurezza e finisce per offrirgli qualcosa di davvero prezioso: uno splendido romanzo e in pari tempo un tassello di memoria collettiva, un’opera magistrale nella quale la finzione, forse proprio perché così sofferta, è la più fedele ancella della verità.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Margherita Botto. Prima di lasciarvi, vi faccio i miei più sinceri auguri di una serena Pasqua. Ci rivedremo dopo le feste. Buona lettura a tutti.
Gabcik – così si chiama – è un personaggio che è realmente esistito. Ha forse sentito, fuori, dietro alle imposte di un appartamento immerso nell’oscurità, solo, sdraiato su un lettuccio di ferro, ha forse ascoltato lo stridio così inconfondibile dei tram di Praga? Mi piace pensarlo. Conoscendo bene Praga, posso immaginare il numero del tram (ma forse è cambiato), il suo percorso, e il luogo dove, dietro alle imposte chiuse, Gabcik aspetta, sdraiato, riflette e ascolta. Siamo a Praga, all’angolo tra Vysehradska e Trojicka. Il tram numero 18 (o 22) si è fermato davanti all’Orto Botanico. Soprattutto, siamo nel 1942.