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“Perché noi portiamo il fuoco”

Recensione de “La strada” di Cormac McCarthy

Cormac McCarthy, La strada, Einaudi
Cormac McCarthy, La strada, Einaudi

Che cosa resta all’uomo quando a morire è il mondo? Che cosa resta di un uomo, di tutti gli uomini, quando ogni altro esistere si è spento? Che cosa significa aprire gli occhi, respirare, lottare in uno scenario di cenere e polvere assalito dal buio, frustato dal gelo, spazzato d’aghi di pioggia? Che senso hanno un padre e un figlio, e l’amore incondizionato che lega l’uno all’altro, in un terra derubata di compassione, strappata alla vita, selvaggia, regredita a una primordiale condizione di ferinità?


Opporre scintille di compassione alle tenebre che avanzano ovunque, e parole all’opprimente silenzio dell’estinzione e dello sterminio, dove può condurre? A quale genere di salvezza? Quale speranza è possibile nutrire di fronte alla muta resa di tutte le cose? A tutte queste domande, ossatura dello splendido e inquietante romanzo La strada di Cormac McCarthy, il grande autore americano non offre risposte dirette, né alcuna altra soluzione.

Ambientando il suo lavoro nella cupa desolazione di un nulla sospeso in un presente opaco e imprecisato (probabile conseguenza di un olocausto nucleare), egli dilata le coordinate di spazio e tempo precipitandole in una dimensione metafisica dove un uomo e un bambino (ritratti senza nome, senza storia, come ombre e nello stesso tempo come archetipi), e la loro battaglia per sopravvivere, per resistere all’annientamento, per non perdere se stessi prima di perdere la vita, sono il riflesso dell’ombra di Dio: “Con la prima luce grigiastra l’uomo si alzò, lasciò il bambino addormentato e uscì sulla strada, si accovacciò e studiò il territorio a sud. Arido, muto, senza dio […]. Quando ci fu luce a sufficienza per usare il binocolo ispezionò la valle sottostante. Tutto sfumava nell’oscurità. La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I tratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo […]. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato”.

Nell’esilità della trama – un adulto e un bambino lottano disperatamente contro la morte in un mondo al collasso – che la splendida, potente prosa di McCarthy trasforma in una vertiginosa riflessione su bene e male, innocenza e colpa, dinanzi al lettore si spalancano gli abissi profondissimi dell’abiezione e le irraggiungibili vette del sacrificio; al cospetto di una natura violata e cadaverica, il cui respiro non è che un continuo tossicchiare raffiche di vento freddo e dove la luce dell’alba è quasi indistinguibile dall’oscurità maligna della notte (“Di giorno il sole esiliato gira attorno alla terra come una madre in lutto con una lanterna in mano”), la pietà è una trappola mortale e insieme la sola possibile via d’uscita dall’incubo.

Quasi completamente orfano d’uomini, il grembo distrutto e sterile che un tempo era la casa comune di persone, bestie e piante, è attraversato da bande di sopravvissuti che non hanno più nulla di umano; razziatori, banditi, belve, mercenari leali all’unico imperativo che ancora sono in grado di comprendere, quello della propria esistenza in vita. Tra loro, un padre e suo figlio disperatamente si aggrappano al pallido ricordo dell’innocenza che doveva pur essere appartenuta loro, un tempo, e con tutte le forze difendono quel che ancora sono, quel che il mondo intero, giunto al suo termine, ancora non gli ha strappato di dosso: “Qualcosa lo svegliò. Si girò su un fianco e tese l’orecchio. Alzò lentamente la testa, con la pistola in mano. Abbassò gli occhi sul bambino e quando tornò a guardare verso la strada già si vedevano arrivare i primi. Oddio, mormorò. Allungò il braccio e scrollò il bambino senza distogliere gli occhi dalla strada. Avanzavano strusciando i piedi nella cenere e dondolando le teste incappucciate. Alcuni portavano maschere antigas. Uno aveva una tuta antiradiazioni. Macchiata e lurida. Camminavano ingobbiti con delle mazze in mano, dei pezzi di tubo. Tossivano. Poi sulla strada dietro di loro sentì quello che sembrava un camioncino diesel”.

Allegoria di un male terribile (con ogni probabilità incurabile) di cui già soffriamo, l’inferno disegnato da Cormac McCarthy, perfetta rappresentazione di un giudizio universale che ha decretato la condanna a morte del mondo, è un viaggio dolorosissimo (eppure anche colmo di struggente dolcezza) fin nel cuore di quel mistero insondabile ed eterno che ha nome uomo, un mistero che nulla può cancellare; non l’assenza di vita, e neppure la fine del mondo: “Quando si svegliò di nuovo gli sembrò che non piovesse più. Ma non era stato quello a svegliarlo. In sogno gli erano apparse delle creature che non aveva mai visto prima. Non parlavano. Gli sembrava che si fossero acquattate accanto alla brandina mentre dormiva e che al suo risveglio si fossero dileguate. Si voltò a guardare il bambino. Forse per la prima volta, capì che ai suoi occhi lui era un alieno. Un essere venuto da un pianeta che non esisteva più […]. Non poteva ricostruire il mondo perduto per compiacerlo senza trasmettergli anche il dolore della perdita, e pensò che forse il bambino lo sapeva meglio di lui […]. Forse quelle creature erano venute a metterlo in guardia. Su cosa? Sul fatto che non poteva riaccendere nel cuore del bambino ciò che era ormai cenere nel suo […]. Una parte di lui continuava a desiderare la fine”.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Martina Testa. Buona lettura.

Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo.

3 commenti su ““Perché noi portiamo il fuoco””

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