Recensione di “La donna in bianco” di Wilkie Collins
“Molti anni fa mi ritrovai nella tribuna pubblica della Corte di giustizia per assistere a un processo penale che si stava svolgendo a Londra. Nell’assistere al procedimento […] fui colpito dalla drammaticità con cui la Corte esaminò e ricostruì il caso, dopo aver ascoltato a turno ogni testimonianza.
Mi resi conto di essere sempre più interessato nel vedere ogni testimone alzarsi in piedi e rilasciare la propria dichiarazione, mentre tutti gli anelli si univano a formare una catena di prove inconfutabili; vidi che la cosa aveva lo stesso effetto sulle persone intorno a me, e che l’interesse cresceva man mano che la catena si allungava, si tendeva e si avvicinava a ciò che, in tutta quella storia, era il punto saliente. «Sicuramente», pensai, «si potrebbe raccontare una serie di avvenimenti in questo modo; si potrebbe essere convincenti nei confronti del lettore, usando gli stessi mezzi impiegati qui, trasmettendo la stessa partecipazione che ho visto nascere con il succedersi delle testimonianze, così diverse nella forma, eppure così assolutamente simili in quei contenuti che conducono alla medesima conclusione». Più ci pensavo, più mi sembrava che sperimentare un tale metodo si sarebbe rivelato un successo. Così, al termine dell’udienza, rientrai a casa, determinato a cimentarmi”.
Con queste parole Wilkie Collins, autore de La donna in bianco, complesso e fascinoso mystery pubblicato a puntate nel biennio 1859-60 sulle colonne del settimanale All the Year Round fondato da Charles Dickens, descrive genesi e architettura narrativa del suo lavoro; un dramma cupo, intricato, ricchissimo di colpi di scena, di false verità, di segreti innominabili; un labirinto oscuro disseminato di passioni, inganni, devozioni cieche e calcolate lealtà; un’odissea tragica e tumultuosa, segnata dai moti opposti dell’amore e dell’odio, della viltà e del coraggio, dell’ostinata, disinteressata nobiltà d’animo e dell’egoistica cura di opachi interessi particolari.
Lungo il profilo preciso e (almeno in apparenza) semplice di un racconto a più voci, che si compone delle testimonianze di tutti gli attori coinvolti e opportunamente ne sottolinea, in vista dello scioglimento finale, le convergenze, Collins si dimostra scrittore di superbo talento; sempre attento all’eleganza dello stile, alla bellezza e alla musicalità della prosa, al pieno rigoglio estetico di ogni frase, egli impreziosisce la grazia delle sue pagine – che lasciata a se stessa si esaurirebbe in impalpabili volute d’eleganza – con il disegno dei personaggi (tutti perfettamente connotati, descritti con impareggiabile maestria nel carattere, rappresentati con puntualità in ogni sfumatura psicologica, e rivelati, nelle debolezze e nelle eccentricità, da squisiti ritratti carichi di humour e di brillante, irresistibile perfidia) e con un intreccio mozzafiato, che non concede tregue.
Il quieto splendore della campagna inglese, e la sonnolenta raffinatezza delle sue dimore patrizie, fanno da sfondo a una torbida storia di paure e vendette che ruota attorno a uno scambio di persona e che, in ossequio al limpido universo etico dell’età vittoriana e alle regole del romanzo inglese ottocentesco, si consuma nella notte distinzione tra bene e male, assoluti incarnati dalle azioni e dai moventi dei protagonisti: l’umile insegnante di disegno Walter Hartright, acceso d’amore per la sua allieva, la timida e debole Laura, promessa sposa di Sir Percival e vittima di un terribile complotto; Marian Halcombe, sorella di Laura, fiera, indomita, pronta a tutto pur di proteggere colei che più ama al mondo; il pavido egoista Mr Fairlie, tutore delle due sorelle, malato immaginario che vive segregato nelle proprie stanze, circondato da tesori artistici di ogni sorta, e rifugge qualsiasi contatto con il prossimo, potenzialmente letale per i suoi “nervi” già drammaticamente scossi; lo stesso Sir Percival, spirito senza pace le cui intemperanze caratteriali non valgono a celare, se non maldestramente, un passato fitto d’ombre e delitti, e il suo amico italiano, il corpulento conte Fosco (senza alcun dubbio uno dei personaggi più felici e interessanti dell’opera), uomo di vastissima cultura e di diabolica astuzia, abilissimo manipolatore d’uomini nonché ingegnosa mente criminale cui si deve l’elaborazione del tranello nel quale finisce la povera Laura; e infine Anne Catherick “la pazza” (la donna in bianco del titolo), sosia di Laura, fuggita dal manicomio nel quale (per ragioni che l’autore poco alla volta svelerà) era stata rinchiusa e decisa a punire chi l’ha condannata a quell’ingiusta detenzione.
A legare tra loro tutte queste figure (e altre ancora, il cui esiguo spazio all’interno del romanzo nulla toglie alla precisione con la quale vengono tratteggiati), un enigma quasi inspiegabile, un mistero che sembra non avere soluzione e che Wilkie Collins compone come fosse un puzzle, disseminando le sue pagine di indizi, spesso celati in informazioni a prima vista di nessun valore. L’oziosa riflessione su un comportamento o su una parola detta o taciuta, l’affrancatura di una lettera, la destinazione di un’innocua passeggiata, un sospetto malriposto; ogni cosa, nella scrittura di Collins (sovrabbondante di dettagli e nonostante ciò mai fuori misura), può essere utile a far luce su un aspetto della storia, contribuire all’accertamento del vero, e allo stesso tempo può condurre fuori strada, vanificare gli sforzi compiuti.
Tesi sul baratro dell’ignoto e del fallimento, la giustizia negata, il gioco crudele dello scambio d’identità, il tormento di una ricerca che pare destinata a non trovar riposo né soddisfazione, spettri impegnati in una macabra danza, danno vita, nel suggestivo narrare di Wilkie Collins, a un ipnotico incubo a occhi aperti che dalla prima all’ultima riga non smette di coinvolgere, avvincere, emozionare.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Fazi, è di Stefano Tummolini. Buona lettura.
Era l’ultimo giorno di luglio. La lunga estate calda volgeva al termine, e noi, stremati pellegrini del selciato di Londra, cominciavamo a pensare all’ombra delle nuvole sui campi di grano, e alle brezze d’autunno in riva al mare. Quanto a me, quel che restava dell’estate mi lasciava senza forze, senza allegria, e, a dire il vero, anche senza soldi. Nel corso di quell’anno non avevo amministrato i miei guadagni con la solita attenzione; e la mia prodigalità ora mi condannava a un autunno da trascorrere all’insegna del risparmio, dividendomi tra il villino di mia madre a Hampstead e il mio modesto appartamento in città.