Recensione di “Moll Flanders” di Daniel Defoe
“Defoe era un uomo anziano quando si fece romanziere, precedendo di molti anni Richardson e Fielding, e risultando veramente uno dei primi a dar forma al romanzo e a lanciarlo nel suo cammino. Ma non c’è bisogno di insistere troppo sul fatto del suo primato, se non per osservare che egli giunse alla propria attività di romanziere con certi concetti su quest’arte, derivati in parte dal suo essere uno dei primi a praticarla.
Il romanzo doveva giustificare la propria esistenza raccontando una storia vera e predicando una morale consistente […]. Per fortuna questi principi si sposavano a meraviglia con la sua disposizione e i suoi talenti naturali. I fatti gli erano stati inculcati da sessant’anni di alti e bassi delle sue fortune prima di mettere a profitto la sua esperienza nella narrativa […]. Aveva trascorso diciotto mesi nel carcere di Newgate e parlato con ladri, pirati, ladroni di strada e falsari, prima di scrivere la storia di Moll Flanders.
Ma un conto è avere i fatti gettati addosso dalla vita e dal caso; un altro, ingoiarli voracemente e mantenerne indelebilmente l’impronta.
Non è semplicemente che Defoe conoscesse la durezza della povertà e avesse parlato con le sue vittime; è che la vita inerme, esposta alle circostanze e costretta a difendersi da sola, sollecitò la sua immaginazione come materiale appropriato della sua arte […]. Defoe appartiene, veramente, alla scuola dei grandi scrittori semplici, la cui opera si fonda sulla conoscenza di quanto è più persistente, se non più seducente, nella natura umana […]. Egli appartiene alla scuola di Crabbe e di Gissing, e non semplicemente come un altro allievo del medesimo severo luogo di sapere, ma come suo fondatore e maestro”.
Nel presentare Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders (pubblicato nel 1722, dopo il grande successo ottenuto con Robinson Crosue) e il suo autore, Daniel Defoe, Virginia Woolf – autrice dell’introduzione al volume edito da Rizzoli – sembra offrire come possibile chiave di lettura quella del romanzo-verità, dell’opera d’edificazione il cui fine è l’insegnamento, tuttavia, nell’indicare regole e principi del romanzo, sottolinea come l’adesione di Defoe al “canone” romanzesco vada giudicata con prudenza.
Non a caso, la verità, stella polare di Moll Flanders, è di continuo evocata (“Il mio vero nome”, queste le parole che aprono lo scritto) e di continuo tradita, ingannata, nascosta; la vicenda narrata, autobiografica, si suppone vera, eppure colei che la racconta dichiara di voler tacere il suo vero nome, e nel confessare le sue avventure (perché di confessioni si tratta, confessioni generosamente dispensate al fine di mettere sull’avviso i lettori e di convincerli a seguire l’impervia strada della virtù piuttosto che il facile ma rovinoso sentiero del vizio) si compiace dei trucchi escogitati per mettere nel sacco il prossimo, delle truffe ben riuscite, delle menzogne dette e degli astuti silenzi carichi di sottintesi, grazie ai quali spesso riesce a raggiungere i propri scopi. “Defoe”, scrive ancora la Woolf, “è spesso piatto […].
Esclude la totalità della natura vegetale, e una gran parte della natura umana […]. Avendo all’inizio limitato il proprio orizzonte e confinate le proprie ambizioni, egli ottiene una verità di penetrazione assai più rara e permanente della verità di fatto che dichiarò sempre come proprio obiettivo. Moll Flanders e i suoi amici lo colpirono non, […] come dichiarò lui, perché fossero esempi di malavita, dei quali il pubblico avrebbe potuto giovarsi. Fu la loro veracità naturale, allevata in loro da una vita di durezze, a eccitare il suo interesse. Questi uomini e donne […] erano liberi di parlare apertamente delle passioni e dei desideri che hanno mosso uomini e donne dagli inizi del tempo, e così ancora oggi mantengono intatta la loro vitalità. C’è una dignità in tutto quanto si guarda apertamente […]. Potete obiettare che Defoe è monotono, ma mai che si lasci assorbire da cose di poco conto”.
Quali verità, dunque, attendersi dall’eroina di Defoe, nata a Newgate, sposatasi per cinque volte, divenuta ladra abilissima dapprima per necessità, poi per diletto e infine per inestinguibile brama di ricchezza, degradatasi a prostituta e poi innalzatasi alla piena ricchezza? Non tanto quella eterna (ma sostanzialmente intangibile) della lezione morale, dell’esempio da fuggire o seguire a seconda delle circostanze (in vecchiaia e serenità, Moll Flanders ha modo di pentirsi delle sue malefatte), ma quella, ben più concreta nella sua imperfezione, ben più presente alla quotidianità di ognuno e di tutti nel suo mutevole profilo, della vita vissuta, del diritto all’esistenza e alla dignità strappato giorno dopo giorno al demone della povertà, alla vergogna e all’umiliazione, della ricerca della felicità personale inseguita per ogni dove e a qualsiasi costo.
Così Moll Flanders si fa ricordare non tanto per il suo costante (e inevitabilmente generico) esortare quanto per il complesso ritratto psicologico della sua eroina e per gli sfaccettati caratteri di coloro che le stanno intorno; è dai comportamenti, dalle scelte e dalle motivazioni che le guidano che il lettore viene non solo coinvolto ma anche, in qualche misura, istruito. E non solo perché, in grande anticipo sui suoi tempi, Defoe mette in bocca alla protagonista del suo travolgente romanzo considerazioni sul ruolo della donna considerate anche oggi (dai più oscurantisti, va da sé) eccessive, ma perché Moll Flanders madre, moglie, ladra, prostituta e avventuriera, vive le vite di ognuno di noi, affronta un mondo che non è diverso dal nostro, e lo fa con le sue sole forze.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Rizzoli, è di Ugo Dèttore. Buona lettura.
Il mio vero nome è così noto negli incartamenti e nei registri di Newgate e dell’Old Bailey, e vi si ricollegano fatti di tale importanza, per quel che riguarda la mia personale condotta, che non ci si può aspettare che scriva per esteso in questo libro il mio nome o una relazione sulla mia famiglia. Forse, dopo la mia morte, sarà meglio conosciuto; attualmente non sarebbe davvero conveniente, nemmeno se concedessero una amnistia generale senza eccezione né riserva di persone e reati.