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L’era della malafede

Recensione di “Igiene dell’assassino” di Amélie Nothomb

Amélie Nothomb, L'igiene dell'assassino, Guanda
Amélie Nothomb, Igiene dell’assassino, Guanda

Non si odia quando si smette di amare, si odia (sgomenti, atterriti e in buona misura increduli) quando si comprende, senza possibilità d’errore, che non esistono ragioni per amare coloro che con tutte le nostre forze desidereremmo amare. L’odio, dunque, non è il passo conclusivo di un traumatico cortocircuito emotivo dapprima inghiottito nel silenzioso, impotente cono d’ombra della delusione e poi consumato nell’impetuosa irrazionalità della frustrazione e della rabbia; è il prodotto – esatto, gelido, implacabile – di un ferreo ragionare, il risultato incontestabile di unequazione; è la nuda presa d’atto di una verità evidente, la negazione netta di ogni possibile meccanismo di negazione, di qualsiasi giustificazione si possa concepire.


Si odia per la semplice, terribile ragione che non esiste alcuna ragione per amare. Fu Louis-Ferdinand Céline a comprenderlo prima e meglio di tutti, e a fare di questo amore impossibile, di questo “gratuito sporgersi” verso il prossimo cancellato alla radice dal prossimo stesso, la pietra angolare dei suoi splendidi e laceranti romanzi, ed è a Céline, e al suo atroce disvelamento dell’“enigma uomo” (la cui sconfinata miseria spirituale non ha purtroppo nulla di enigmatico), che guarda, con cinica simpatia e perfida arguzia, l’autrice belga Amélie Nothomb nel suo folgorante e delizioso romanzo d’esordio: Igiene dell’assassino. Céline, infatti, in più di un’occasione evocato e incensato (a sproposito, come si scoprirà a lettura ultimata), è il modello, letterario, etico ed esistenziale, del protagonista del romanzo della Nothomb, il misantropo, crudele, talentuosissimo scrittore, premio Nobel per la Letteratura, Prétextat Tach.

Programmaticamente disgustoso nel fisico (obeso, imberbe, simile in tutto e per tutto, eccezion fatta per la voce, a un eunuco), che nelle intenzioni della Nothomb vuole essere specchio fedele della sua distorta moralità, Tach, alla bella età di ottantatré anni, si scopre affetto dalla rarissima “sindrome di Elzenveiverplatz”, una forma di cancro delle cartilagini che lascia all’uomo non più di due mesi di vita.

Così, in vista della fine, il grande scrittore decide di abbandonare l’isolamento nel quale è vissuto fino a quel momento e di concedersi alla stampa per una serie di interviste, cinque in tutto. Ed è con i malcapitati professionisti dellinformazione che si presentano alla sua porta che il moribondo Prétextat Tach ha modo di esibire, sulle ali di un’eloquenza tanto squisita quanto tagliente, il suo disprezzo per il mondo. I suoi faccia a faccia con i giornalisti, che l’autrice conduce con indubbia maestria, sono vere e proprie battaglie dalle quali, invariabilmente, Tach, lo scrittore in punto di morte, talmente grasso da potersi muovere solo in sedia a rotelle, esce trionfante, tra le mani i resti sanguinolenti delle certezze dei suoi interlocutori.

E sempre l’ombra di Céline (come Tach, uno degli scrittori meno letti in assoluto) fa capolino a benedire e giustificare l’odio di Prétextat Tach, il suo furibondo scagliarsi contro l’umanità intera, contro la gente: «Ci sono mille ragioni per detestare la gente. La più importante, per me, è la sua malafede, assolutamente granitica. Questa malafede non è mai stata tanto in auge come oggi. Ho conosciuto molte epoche, cosa crede: posso tuttavia affermare di non avere mai detestato tanto un’epoca quanto questa. L’era della malafede nel suo massimo rigoglio. La malafede è molto peggiore della slealtà, della doppiezza, della perfidia. Essere in malafede è mentire innanzi tutto a se stessi, non per eventuali problemi di coscienza, ma per la propria sciropposa autosoddisfazione, usando paroline come ‘pudore’ o ‘dignità’. E poi mentire agli altri, ma non con menzogne oneste e cattive, non per fare casino, no: menzogne ipocrite, menzogne light, che ti rifilano con un sospiro come se dovessero far piacere».

Quattro giornalisti, uno dopo l’altro, cadono sotto i colpi di Tach, crollano, travolti dalla slavina della sua idiosincrasia, finché, al momento dell’incontro tra Prétextat Tach e la quinta e ultima giornalista (l’unica donna del gruppo), le cose cambiano. Di fronte a un’avversaria finalmente degna di lui, il grande scrittore perde il controllo della situazione; lo scambio di battute non è più il divertente e maligno gioco del gatto con il topo che è stato fino a poco prima e comincia a somigliare sempre più a un interrogatorio, un interrogatorio che si fa via via più stringente, più assillante, e che porta Tach fino ai confini di qualcosa che somiglia a una confessione.

Costretto ad abbandonare Céline, a non nascondersi più dietro allo scrittore e all’uomo che forse ha letto ma non ha mai davvero conosciuto e soprattutto capito (e del cui odio disperato e autentico non sa nulla di nulla) – «Mi parli di un individuo che lei ha conosciuto». «Be’, Céline, per esempio». «Ah, no, non Céline». «Come? Non è abbastanza interessante per la signorina?». «Mi parli di un individuo che ha conosciuto in carne e ossa, con cui ha vissuto, parlato, ecc.». «L’infermiera?» – Prétextat Tach finisce per ammettere di aver vissuto gran parte della sua vita prigioniero proprio di quella malafede che con così ispirati accenti ha dileggiato, soffocato da una spirale di menzogne create ad arte per nascondere un atroce segreto, un segreto che secondo lui ha che fare con l’amore ma che in realtà si rivela essere null’altro che unodiosa forma di tirannia, il più patente e vergognoso tradimento dell’amore. 

Tambureggiante nel ritmo, stilisticamente vivacissimo, ispirato e intelligente nella sua ironia metaletteraria, Igiene dell’assassino è senza dubbio un lavoro riuscito, un romanzo che seduce, conquista e sa farsi ricordare.

Eccovi l’incipit. La traduzione per Guanda, è di Biancamaria Bruno. Buona lettura.

Quando fu di dominio pubblico che l’immane scrittore Prétextat Tach sarebbe morto due mesi dopo, i giornalisti di tutto il mondo sollecitarono interviste private con l’ottuagenario. Il vegliardo godeva, certo, di un prestigio considerevole; fu comunque grande lo stupore di veder accorrere al capezzale del romanziere francofono rappresentanti di quotidiani del calibro (ci siamo permessi di tradurre) della «Voce di Nanchino» e del «Bangladesh Observer». Così, due mesi prima della morte, il signor Tach poté farsi un’idea dell’ampiezza della propria fama.

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